giuliano

domenica 19 ottobre 2014

GENTE DI PASSAGGIO (mentre 'rimavo la vita' con il mio amico Lugo da...) (105)


















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Gente di passaggio (mentre 'rimavo la vita' con il mio amico...) (104)

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Se merda son le nostre, a dirlo netto.... (77)














Vale la pena seguire il suo racconto: vi si trova la descrizione degli effetti del decreto del Sant’Uffizio sulle strategie individuali e sui vincoli di un AMBIENTE CITTADINO E DI UN MONDO DI ARTIGIANI.                                                                                              
 Il Riccio conosceva bene Vivaldo, perché lo teneva a pensione in casa sua. Lo vedeva mangiare carne nei giorni di astinenza; vedeva che non andava a messa. Erano segni chiari delle sue idee. Per di più, di quelle idee si discuteva liberamente in casa: Vivaldo, parlando con la moglie dell’orefice, esponeva francamente le sue opinioni ostili alla messa e all’adorazione dell’ostia consacrata. Ma tutto questo non sembra aver creato al Riccio alcun problema fino al giorno in cui seppe dell’ordine di denunziare in confessione i sospetti di eresia.                                                                          
 Lo seppe nella stagione delle confessioni, in quaresima; ne sentì ‘ragionare da diverse persone’. Dicevano ‘che nessuno poteva essere assoluto che havesse praticato o sapesse chi fusse sospetto di heresia’; dicevano cose anche più preoccupanti: che, a non denunziare l’eretico o il sospetto, si correva il rischio di subire la stessa sua pena il giorno in cui la cosa fosse saltata fuori in altro modo.
Il Riccio non si contentò dei discorsi della gente, ma volle sincerarsi di persona.
Andò al convento francescano dell’Osservanza, a parlare con un frate, un tipo ‘piccoletto et allegro’, che confermò le voci: ‘mi disse che, essendo preso detto Vivaldo e si fusse scoperto, che io saria corso nella medesima pena per haverlo tenuto in casa mia’.
 



Emerge da questo che il frate, confessore potenziale, si era fatto dire tutto, anche il nome dell’eretico: e questo poté forse alimentare l’inchiesta sui fiamminghi a Siena che già era avviata su altre basi. Dopo questa mezza denunzia, il Riccio, che voleva essere proprio sicuro del fatto suo, andò a parlare ancora con un prete del Duomo di Siena e con un ‘teatino’ (forse un gesuita?).
La risposta era sempre la stessa.                                                     
A questo punto, il Riccio si decise: andò all’Inquisizione, insieme al suo lavorante Michele, e fece regolare denunzia. Poi andò finalmente a confessarsi: e al frate, che subito lo ‘esortò’ a denunziare Vivaldo, poté rispondere che già lo aveva fatto: il frate, non contento, ‘quasi glie ne chiedeva la fede per esser sicuro di poterlo assolvere’. E così Vivaldo fu arrestato e, per ordine del Sant’Uffizio da Roma, gli fu dato  ‘di buona corda’. Dalla sua deposizione, emerge un altro aspetto di quella confessione, riformata dall’intervento inquisitoriale.
Vivaldo dichiarò all’inquisitore di Siena che si era confessato, sì, ma lo aveva fatto per nascondere i risvolti segreti della sua vita, il modo in cui era diventato seguace delle idee calviniste pur mantenendo in apparenza comportamenti cattolici:  ‘Mi son confessato per non dar ad intendere che io fussi lutherano….e mi son comunicato per mostrar che io ero buon christiano’. La confessione, innestata sul tronco di un SISTEMA POLIZESCO e trasportata sul banco del tribunale come prova a discarico, mutava natura. Diventava ESIBIZIONE RITUALE, prova di conformità e dunque atto di CONFORMISMO.  



                            
E quello che Vivaldo diceva di se stesso – di essersi confessato per ingannare le autorità - altri lo sospettarono e lo dissero di amici e di vicini.  La Pianta del sospetto cresceva vigorosa sulla ambiguità di segno introdotta nella pratica dei sacramenti; e trovava alimento nella rottura dei vincoli sociali prodotta da quella alterazione della confessione dei peccati. L’orefice fiammingo Vivaldo, quando si era visto scoperto, aveva pensato ad un tradimento di un suo amico e compagno (suo amico e compagno) di mestiere, Alessandro.  Incontrandolo in piazza del campo a Siena, ‘alla bocca di san Martino’, lo aveva investito con violenza: ‘Quando si va a confessar, si confessano e’ peccati suoi e non quelli di altri’. Era un’idea della confessione sulla quale Bartolomeo da Medina si sarebbe detto d’accordo. Ma quell’idea, che pure era ufficialmente sostenuta nella letteratura per i confessori, era completamente superata e stravolta dall’intervento dell’Inquisizione. Di fatto, la confessione era diventata il luogo delle delazioni e delle denunzie segrete. Chi si rifiutava di prestarsi a quell’uso, pagava di persona. 
 Alessandro non aveva tradito l’amico; anzi, ‘per non revelar’, non era stato assolto e non si era potuto comunicare. Era una gran prova di amicizia e quella sera i due festeggiarono la fiducia ritrovata con UNA CENA ALL’ OSTERIA.  Ma dovevano pagar cara quella cena: di lì a poco, si ritrovarono tutt’e due davanti agli aguzzini dell’Inquisizione.

(A. Prosperi, Tribunali della coscienza)


















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