giuliano

venerdì 16 gennaio 2015

I NOSTRI PRIMI SOGNI I NOSTRI PRIMI PENSIERI (4)


















Precedente capitolo:

I nostri primi sogni.... (3)

Prosegue in:

I nostri primi sogni i nostri primi pensieri  (5)














.... Di altri, e che in quelli più antichi (che gli evoluzionisti datano da 1,5 a 4,4 milioni di anni) le caratteristiche umane sono combinate con quelle della scimmia antropomorfa. Le testimonianze sono talmente evidenti che non è più il caso di metterle in discussione. Prendiamo l’Australopithecus afarensis, la famosa Lucy. I resti fossili del tipo di quelli di Lucy scoperti nel nord-est africano sono datati da 3 a 3,8 milioni di anni. Si trattava di una specie di un gruppo vittorioso, quello delle australopitecine o grandi scimmie dei boschi, come le chiameremo, che comparvero circa 5 milioni di anni fa e sopravvissero 4 milioni di anni circa. I loro corpi avevano le dimensioni degli scimpanzè moderni. Avevano il cervello, la bocca e probabilmente l’intestino grandi come quelli delle grandi scimmie. Le mani, le spalle e la parte superiore del corpo dimostravano che erano abili scalatori e che probabilmente potevano stare a penzoloni tenendosi  con una sola mano come le grandi scimmie moderne. Eppure, per diversi motivi, non assomigliavano alle grandi scimmie di oggi. La struttura dei piedi, delle gambe e delle anche mostrano che senza dubbio camminavano eretti bene quanto noi. Nemmeno i denti erano come quelli delle grandi scimmie. I molari, in particolare erano molto più grossi di quelli umani o di quelli delle grandi scimmie, sebbene fossero ricoperti da uno strato di smalto spesso, come quelli umani, mentre negli scimpanzè e nei gorilla lo strato dello smalto è sottile. Gambe, bacino e denti smaltati come gli umani. Un miscuglio vero e proprio. Queste grandi scimmie, forse sei o più specie, vissero nelle boscaglie africane per 4 milioni di anni circa. A grandi linee, la loro storia è la nostra preistoria, che si protrae verso il presente anche dopo il periodo in cui, circa 2 milioni di anni fa, il cervello di una specie di grande scimmia dei boschi crebbe in dimensioni, convertendola in una creatura con i primi bagliori di umanità. E noi vogliamo sapere il più possibile sulla vita e la provenienza di queste australopitecine. Sembrerà strano, ma un buon inizio è osservare le grandi scimmie viventi.
(Wrangham /Peterson, Maschi bestiali, basi biologiche della violenza umana)




Questa è la nostra stessa motivazione, la conoscenza è il saper indirizzare correttamente i metodi di ricerca, gli stessi che nella fase di assemblaggio di un moderno telescopio e della successiva messa in orbita, rendono chiare all’occhio quelle affinità che ci guideranno con più sicurezza su uno spazio infinito come l’Universo. Cercherò, nella profonda vastità di esso, tutte quelle coordinate che mi avvicinano di più alla osservazione di una probabile verità, una in più rispetto alle presunte ottenute. Questo volgendo per lo più lo sguardo al passato. Dando per scontato che il passato come il futuro segue una linea irreversibile nel tempo perché entro la materia. Io parto dalla premessa che un mio aspetto essenziale ma non quantificabile non ha una ‘direzionalità nel tempo’, è della stessa sostanza di cui è fatto (un probabile) Dio, per cui egli è in me, quanto io in lui. Lo sforzo di questo ‘telescopio’ è individuare quel punto senza tempo fuori dal Tempo, nell’antimateria prima di un ‘nulla apparente di vita’ e ancora prima di essa. Tornare progressivamente a quella condizione di tutto e nulla. Non è quindi solo porgere la percezione sul ‘nulla’, nella semplicità o complessità che il termine potrebbe sottintendere quando riesco per gradi a risalire la china del tempo, ma condizione imprescindibile nel momento in cui attraverso tutte le fasi con i relativi nessi casuali che mi hanno indotto verso una regressione culturale, approdo, attraverso la mente del ‘primitivo’, e dopo di lui, gli antichi che gli sono succeduti, a frammenti di vita.  Ed alla sua interpretazione.

I tre rituali battesimali catari che possediamo sono concordi nell’inserire all’interno del sacramento la lettura del Prologo del ‘Vangelo di Giovanni’, cioè i versetti 1-17 del primo capitolo, ma solo due, quello provenzale e quello slavo, ne riportano il testo per intero. Uno dei concetti ricorrenti in questo brano riguarda l’opposizione dei contrari, motivo essenziale per tutto il filone dualistico antico, dai primi gnostici, attraverso manichei, messali, priscillianisti, per arrivare ai pauliciani, ai bogomili e infine ai catari, come rileva l’autore del ’Tractatus Manicheorum’ secondo cui tali eretici rifacendosi ad un versetto biblico di Gesù Siracide: “omnia duplicia, unum contra unum”, predicano l’esistenza di “duos mundos, duo regna, duos celos, duas terras, et sic omnia dicunt esse duplicia”. A questo proposito è interessante affrontare la questione, in verità estremamente complessa dei versetti 3-4 del Prologo giovanneo: “omnia per ipsum facta sunt et sine ipso factum est nihil quod factum est in ipso vita erat et vita erat lux homium”, in cui due sono i problemi nodali legati all’interpretazione. Il primo è quello del senso di dare alla frase scandendo i vari elementi in essa presenti con il ricorso a cesura o pausa, che a livello di testo scritto si esprime mediante segni di interpunzione. Il secondo problema è quello del significato che i catari attribuivano al termine ‘nihil’ e, per contro, ad ‘omnia’.
(Discussioni sul nulla tra Medioevo ed età moderna)

 Riappropriato di quella coscienza che ci è appartenuta e che ci apparterrà sempre, e che inevitabilmente mi porta su sentieri di intuizioni tradotte come singole stratigrafie di terreno di un ‘linguaggio comune’ (soggetto a più interpretazioni), di una ‘visione comune’ (soggetta a più sguardi), appartenuta a tutti gli esseri viventi (soggetti ad infinite connessioni). Ragione per cui la semplicità di tal ‘visione’ potrebbe apparire primitiva, priva cioè, di quei significati che cerchiamo. E forse anche inutile. Una vocale o consonante ‘comune’, che oltre a quel nulla apparente di un principio, di un mare, quale inizio della vita, sembra priva di quella vista che stabilisce lo stato primo o antecedente ad essa. Da qualche parte deve esserci, è questa la scintilla nella dimensione nascosta che cerco. Perché so esserci, ed esistere.




Uno sguardo attento allo specchio è una esperienza snervante. A nessuno di noi piace vedere i nostri difetti. Ma anche se è uno sguardo che fa paura, perlomeno ci suggerisce dei rimedi. Accettare il fatto che gli uomini abbiano una storia molto lunga di violenza implica che sono stati plasmati nel temperamento per usare la violenza con efficacia e che perciò faranno fatica a frenarla. E’ forse allarmante riconoscere l’assurdità del sistema: un sistema che lavora per favorire i nostri geni e non la nostra coscienza e che inavvertitamente mette in pericolo il destino di tutti i nostri discendenti. Ci aiuta studiare i nostri difetti? Ci Aiuta ad avvicinarci a quel che vorremmo, a creare un mondo dove i maschi siano meno violenti di adesso? Sarebbe bello rispondere ‘si certo’. Ma nulla indica che essere consapevoli del problema riduca efficacemente la violenza proiettata verso l’esterno della società umana: il problema di Noi contro Loro dell’aggressività intergruppo. A livello internazionale è certamente difficile immaginare come un disegno evolutivo possa influire sui calcoli e le ispirazioni dei leader, messi sotto pressione per lavorare nell’interesse della propria tribù, nazione o impero. E la storia indica che l’analisi intellettuale ha avuto scarso impatto nel corso delle aggressioni intergruppo;se esaminiamo le società, dall’antica Grecia alle nazioni moderne contemporanee, scopriamo motivi non chiari nell’andamento totale delle morti causate dalla violenza intergruppo, che sono comprese tra 5 e 65 per 100.000 all’anno. Ogni generazione può sperare che l’ultima guerra scoppiata sia davvero l’ultima, ma finora non ci sono segni che sia così. E mentre il temperamento del maschio umano rimane sorprendentemente stabile, la tecnologia umana improvvisamente, nell’ultimo istante storico, ha sconvolto tutto. Uno dei pregi della visione evolutiva è che presenta gli umani come un unico gruppo, che venera un unico antenato, mette in rilievo l’unità e banalizza le nostre differenze. Nell’immediato i rimedi contro la violenza maschile appartengono alla sfera della filosofia politica e non a quella biologica.
(Wrangham/Peterson, Maschi bestiali basi biologiche della violenza umana)

Anche la guerra è sinonimo aggregante e disgregante, ugual consonante o vocale del primo linguaggio, le situazioni avverse che ne scaturiscono con lunghi monologhi per legittimare posizioni di miti differenti nella verità della vita stabilisco erroneamente il grado di evoluzione, non invece i miti adottati da singole civiltà. Verifichiamo la veridicità dei motivi scatenanti delle premesse oltre gli inevitabili interessi di cui un singolo mito si fa portatore di un linguaggio comune cancellando di fatto la comprensione e non solo, di opposte visioni di altrettanti miti, per l’appunto.




Manifestamente troppo generica è ad esempio la formulazione proposta da Leach secondo la quale il mito costituirebbe l’espressione di realtà inosservabili in termini di fenomeni osservabili, e inappropriata risulta anche quella definizione,che vari autori hanno ricavato dalla lettura dei testi levistraussiani, definizione secondo la quale, per usare la precisa formulazione offerta da Paolo Fabbri, il mito sarebbe riconoscibile come un ‘algoritmo’ di enunciati che tenta di risolvere sul piano immaginario delle contraddizioni reali o immaginarie entro o tra i subuniversi semantici che articolano una cultura data.
(G. Ferraro, Il linguaggio del mito)

Le simmetrie messe in luce tra miti di popolazioni estremamente lontane e diverse tra loro possono essere ben reali, e non di meno è chiaro che i Borono del Brasile quando raccontano, comprendono o pensano i loro miti non sono minimamente toccati da quando possono pensare o raccontare gli Arapaho delle pianure occidentali degli Stati Uniti. Ci si può chiedere allora se il modo in cui è possibile accedere al senso dei miti attraverso una analisi condotta da membri di una cultura estranea debba essere così interamente diverso dal modo in cui gli stessi miti sono percepiti e compresi all’interno della cultura che li produce. Si resta inevitabilmente perplessi, da un lato, di fronte ad una analisi che ricorre magari a un racconto nordamericano per chiarire il senso di un episodio d’un mito del Mato Grosso; dall’altro lato, nel caso si debba riconoscere la correttezza dei risultati raggiunti secondo tale procedimento, si porrà allora spontaneamente la domanda: come è allora possibile che un Indio del Mato Grosso, certamente all’oscuro delle mitologie di popoli così lontani dal suo, possa comprendere il senso dei racconti della sua stessa tradizione? La conclusione, come si vede, può essere addirittura paradossale. E si potrebbe complicare il problema chiedendosi se poi, in effetti, la pretesa singolarità e totalità di ciascun complesso mitologico non sia in fondo altro che il risultato di un’illusione.
(G. Ferrero, Il linguaggio del mito)

Per superare questo punto, questo scoglio, questa liscia parete, abbisogno di nuove discipline e analoghe simmetrie. Se diamo per scontata l’innata violenza dell’uomo, nelle sue specifiche condizioni di ‘uomo’ appunto, evidenzio un assunto di natura biologica, cioè, intendo tutte quelle condizioni che hanno permesso la formazione di un essere dotato di vita da quando è uscito dal ventre liquido della madre che lo ha tenuto in grembo per lungo tempo.
Nello studio proprio della stratigrafia della terra rileviamo un numero di informazioni riconducibili in diversi ambiti della scienza, e non per ultimo spiegano anche argomentazioni nella sfera del mito analizzato secondo criteri antropologici. Ma, senza l’analisi di una moderna disciplina che studia appunto la geologia non posso effettuare le dovute connessioni che in ciascuna epoca stabiliscono le condizioni della vita ed i relativi miti adottati. In sostanza non potremmo orientarci attraverso la difficile geografia umana se la dissociamo dal contesto naturale dove nasce con tutte le relative connessioni quali radici non viste ma costanti nello sviluppo evolutivo. E quindi avviarci verso una probabile soluzione della sua biologia che fa dell’uomo quell’essere demoniaco di cui la violenza sembra la sua sola compagna e padrona. 

La Terra si comporta come un gigantesco magnete attorniato da un complicato campo magnetico invisibile che permea ogni cosa. Il campo geomagnetico è generato da correnti elettriche nel nucleo fuso della Terra. Il campo magnetico che misuriamo sulla superficie terrestre è tuttavia la sovrapposizione e la somma di diverse componenti di origine sia interna che esterna: il campo del nucleo, i campi generati dalla magnetizzazione delle rocce, le correnti elettriche che fluiscono nella ionosfera e nella magnetosfera e altre correnti indotte. Nel corso dei tempi geologici questo tipo di polarità (normale) si alterna con una polarità inversa durante la quale il polo nord del dipolo terrestre coincide approssimativamente con il polo nord geografico. L’analisi della magnetizzazione rimanente fossilizzata nelle rocce di una successione sedimentaria permette di rivelare la presenza nel corso del tempo di inversioni di polarità del campo geomagnetico. 
















Nessun commento:

Posta un commento