giuliano

mercoledì 14 ottobre 2015

CARLO GINZBURG (2)


















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...Rocce gemelle di fronte a loro venivano al giudizio. Parlano con Iswor in tamang zoppicante, ma non possono entrare nel passaggio di roccia. Sembra così stretto da essere intransitabile, ed è bloccato dal ghiaccio. Anche la persona più esile rischia di rimanervi intrappolata.

....La roccia sa tutto…

 Il 27 giugno 1580, l’inquisitore fra’ Felice da Montefalco riprende la causa lasciata a mezzo dal suo predecessore, facendo comparire davanti a sé uno dei due… ‘benendanti’, Paolo Gasparutto….
Costui dichiara di ignorare per quale motivo sia stato chiamato. Si è confessato e comunicato ogni anno dal suo piovano; non ha mai sentito dire che a Iassico ‘ci sia alcuno che viva da lutherano, et viva malamente’.
Allora fra’ Felice chiede ‘se lui sa o conosca alcuno che sia…- strigone o benandante’-.
Il Gasparutto risponde negativamente: ‘di strigoni non so alcuno, né anco di benandante’. E improvvisamente scoppia a ridere: ‘Padre no che io non so… io non sonno benandante, né la profession mia è tale’.
…Allora l’inquisitore comincia a bersagliarlo di domande: ‘ha mai curato il figlio di Pietro Rorato?’.
‘Il Rotaro mi ha chiamato’, dice Paolo, ‘ma io gli ho risposto di non saperne nulla e di non poterlo aiutare’.
‘Ha mai parlato di benandanti con l’inquisitore passato e con il piovano di Iassico?’.
Paolo dapprima nega: poi ammette, sempre ridendo, di aver affermato di sognar di combattere con gli stregoni. Ma di fronte alle domande incalzanti dell’inquisitore, che gli ricorda particolari dei suoi racconti di cinque anni prima, riprende a negare, tra continui scoppi di risa.
Chiede il frate: ‘Perché hai tu riso?’.
E il Gasparutto, inaspettatamente: ‘perché queste non sonno cose da addimandarsi, perché si va contra il voler de Iddio’.
L’inquisitore insiste, sempre più sconcertato: ‘perché se va contra il volere de Iddio interrogandosi di queste cose?’.
A questo punto il benandante si accorge di aver detto troppo: ‘perché se addimanda cose che io non so’, risponde, e ritorna sulla negativa….




Il giorno stesso viene interrogato l’altro benandante, il banditore Battista Moduco, detto ‘Gamba Secura’, nato a Tralignano ma abitante da trent’anni a Cividale. Anch’egli dichiara di essersi confessato e comunicato regolarmente, e di non conoscere eretici: ma, interrogato a proposito di ‘stregoni’ e ‘benandanti’, risponde tranquillamente: ‘de stregoni non so che ve ne siano alcuni; et de benandanti io non conosco altri che mi’.
Immediatamente fra’ Felice chiede: ‘che vuol dire questa parola benandante?’.
Il Moduco sembra pentirsi dell’incauta risposta e cerca di volgere la cosa in scherzo: ‘benandanti io chiamo quelli che mi pagan bene, vo volentieri’. Tuttavia finisce per ammettere di aver detto a diverse persone di essere benandante, aggiungendo: ‘io delli altri non gli posso dire perché non posso andar contra il divin volere’. Per quanto riguarda la sua persona il Moduco dichiara senza esitare: ‘Io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte, invisibilmente con lo Spirito et resta il corpo; et noi andiamo in favor di Cristo (o de altri Profeti prima de Lui…) et li stregoni del diavolo, combattendo l’un con l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo’.
Non è difficile immaginare lo sconcerto dell’inquisitore di fronte a questi benandanti, per tanti versi simili a veri e propri stregoni (sciamani…), che contro gli stregoni (diavoli avversi….) si atteggiano a difensori della fede di Cristo.
Ma il Moduco non ha finito: ‘et se noi restiamo vincitori, quello anno è abbondanza, et perdendo è carestia in quel anno’. Più avanti preciserà: ‘nel combattere che facciamo, una volta combattiamo il formento con tutti li grasami, un’altra volta li minuti, alle volte li vini: et così in quattro volte si combatte tutti li frutti della terra, et quello che vien vento da benandanti quell’anno è abondanza’…




Il 24 settembre l’inquisitore fa condurre a Udine il Gasparutto, che non ha tenuto fede all’impegno (se ne scuserà affermando di essere stato malato) e lo fa incarcerare. Due giorni dopo il benandante viene nuovamente interrogato.
Finora i racconti del Moduco e del Gasparutto avevano mostrato un quasi assoluto parallelismo. A questo punto si ha uno scarto: il Gasparutto modifica la sua confessione in un punto essenziale, introducendo un elemento nuovo.
‘Io ho pensato di havere a dire la verità’, dichiara all’inizio dell’interrogatorio; e l’inquisitore che ripropone la domanda volta ad intaccare la cerniera ‘teologicamente’ più importante della sua confessione (“chi vi ha insegnato ad entrare in questa compagnia di questi benandanti?”) risponde inaspettatamente: ‘l’angelo del cielo… di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno… mi apparse un angelo tutto d’oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo Spirito andò fuori… egli mi chiamò per nome dicendo: “Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade” Io gli risposi: “ io andarò, et son obbediente” ’.
Come interpretare questa variazione?
A prima vista sembrerebbe ovvio supporre che, di fronte al prolungarsi degli interrogatori e alla nuova incarcerazione, il Gasparutto abbia tentato di districarsi dalle maglie dell’inquisizione accentuando ulteriormente le motivazioni cristiane della sua ‘professione’ con l’inserzione del motivo dell’angelo, senza avvedersi di aggravare così la propria posizione.
Il Gasparutto ha appena finito di parlare dell’apparizione dell’angelo ‘tutto d’oro’, che l’inquisitore insinua con repentina brutalità: ‘che cosa vi promesse, donne, da mangiare, salti et che cosa?’.
E’ bastato l’accenno all’angelo, fatto da Paolo per convincere fra’ Felice del carattere effettivamente diabolico dei ‘giochi’ dei benandanti, e della loro identità con il sabba…
Il Gasparutto nega recisamente, e si difende attribuendo le accuse che gli vengono mosse agli altri, ai nemici, agli stregoni: ‘non mi promesse alcuna cosa, ma quelli altri ballano et saltano, et gli ho visti perché combattemo con loro’.




Allora l’inquisitore attacca un altro caposaldo della narrazione di Paolo: ‘dove andò il Spirito vostro quando l’angelo vi chiamò?’.
‘Uscì fuora, perché nel corpo non può parlare’, rispose Paolo.
Ed il dialogo si fa serrato: ‘chi vi ha detto che ’l Spirito esca di fora acciò parli con l’angelo?’.
‘L’angelo medesimo me l’ha detto’.
‘Quante volte avete visto questo angelo?’.
‘Ogni volta che io andava fora, perché sempre veneva con me’ (e poco dopo aggiungerà: ‘lui sta in persona apresso la nostra bandiera’)’.
Finora si era avuto quasi un monologo del Gasparutto rotto solamente da richieste di chiarimenti da parte dell’inquisitore. Finché i racconti dei ‘giochi’ notturni dei benandanti rivelavano una realtà sconcertante, lievemente sospetta, ma comunque non inquadrabile nei consueti schemi demonologici, fra’ Felice aveva mantenuto un atteggiamento passivo, misto di stupore e di distaccata curiosità. Ora, di fronte allo spiraglio insperatamente offerto da Gasparutto, la tecnica dell’interrogatorio cambia, diventa palesemente suggestiva (ed intimidatoria, in riferimento a ciò dobbiamo considerare il fine dell’inquisitore, il quale non solo vigile pastore e custode dell’Anima quanto dello Spirito, di ogni Anima e Spirito, - ieri come oggi con prassi invariata ad altri delegata e comandata ed ugualmente ed efficacemente abdicata a una più moderna tecnica altrettanto vigile alla coscienza innestata e controllata, in cui lo Spirito relegato ad un materiale sogno ‘comandato’ e composto; non dimentichi, altresì, l’interesse puramente materiale dell’aspetto, o meglio, gli aspetti, che la stessa inquisizione (Orwelliana) incarna nei confronti degli ‘interessi’ puramente terreni dell’inquisito…): l’inquisitore vuole ad ogni costo far aderire le confessioni del benandante al modello (telogico ed in futuro ‘psicologico’) di cui dispone il suo manuale: il sabba.




Dapprima egli inquina subdolamente la figura dell’angelo con attributi demoniaci: ‘quando vi appare overo si parte da voi, vi spaventa questo angelo?’; Paolo ribatte puntigliosamente: ‘non ne spaventa mai, ma quando ci partemo dalla squadra ne dà la beneditione’.
‘Questo angelo non si fa adorare?’.
‘L’adoramo sì come adoriamo il nostro signor Jesu Cristo in chiesa’.
Allora fra’ Felice cambia discorso: ‘vi mena quest’angelo dove è quel altro in quella bella sedia?’.
Inutile dire che nel racconto del Gasparutto mancava qualsiasi accenno a diavoli o a sedie; ma la risposta anche questa volta è prontissima, e venata d’indignazione: ‘ma ’l non è della nostra lega, Dio ci guardi di impicciarci con quel falso nemico!... sonno li stregoni di quelle belle sedie’. 
L’inquisitore incalza: ‘havete mai visto li stregoni a  quella bella sedia?’.
E il Gasparutto, muovendo le braccia, sentendosi prigioniero della rete che gli è stata tesa dall’inquisitore: ‘ma signor no, che noi non femo altro che combattere!’.
Ma fra Felice è implacabile: ‘qual è più bel angelo, il vostro o quello di quella bella sedia?’.
E Paolo, contraddicendosi disperatamente: ‘non vi ho detto che non ho visto quelle sedie?...’.
Ormai il processo volge al termine…
L’inquisitore è sostanzialmente riuscito a ricondurre la testimonianza del Gasparutto all’interno dei propri schemi, delle proprie coordinate teologiche: i convegni dei benandanti e degli stregoni non sono altro che il sabba, e la ‘compagnia’ dei benandanti, che falsamente asseriscono di essere sotto la protezione divina e di combattere sotto la guida e la protezione di un angelo, è così diabolica. Di fronte all’incalzare delle domande dell’inquisitore la sicurezza del Gasparutto sembra vacillare, come se la realtà in cui egli credeva avesse improvvisamente mutato aspetto, gli fosse sfuggita dalle mani. Qualche giorno dopo, ripresentandosi a fra’ Felice, dichiarerà: ‘credo che la aparitione di quel angelo sia stato il demonio che mi tentasse, poi che mi avete detto che si può trasfigurare in agnolo’.




…Si è parlato dei benandanti come di una setta: una setta particolarissima, le cui cerimonie, a detta dei benandanti stessi, hanno la caratteristica di essere, staremmo per dire, puramente oniriche. In realtà i benandanti si esprimono diversamente, e non mettono mai in dubbio la ‘realtà’ dei loro convegni a cui si recano ‘in Spirito’. L’atteggiamento delle streghe processate in altre parti d’Italia (e non soltanto in Italia) era perfettamente analogo. Si veda ad esempio il caso di Domenica Barbarelli, una strega di Novi processata dall’inquisizione modenese nel 1532 la quale affermava l’andare in sogno ‘in Spirito’, anche in questo caso di Eresia l’‘andare in Spirito’ è percepito come qualcosa di reale; per questo la strega può beffarsi degli astanti: ella, o meglio il suo Spirito è veramente andato al ‘corso’. Ci soffermeremo più avanti sul significato di questo andare ‘in Spirito’ per streghe e benandanti; cominciamo intanto col notare che tanto le une che gli altri affermavano di cadere, prima di recarsi ai ‘convegni’, in uno stato di profonda prostrazione, di catalessi, sulla cui origine si è discusso molto. Si tratta di un problema senza dubbio marginale per l’interpretazione della stregoneria: anche se potessimo (e non possiamo) determinare con sicurezza la natura di questi stati catalettici, rimarrebbe da spiegare ciò che più importa, e cioè il significato delle ‘visioni’ di streghe e benandanti. Ma non c’è dubbio che il problema vada almeno posto (e valutato con ugual Spirito di ricerca).




Le interpretazioni avanzate sono sostanzialmente di due tipi: o si è supposto che streghe e stregoni fossero individui affetti di epilessia, o di isterismo, o da altre malattie nervose non meglio individuate; oppure si sono attribuite le perdite di coscienza accompagnate da allucinazioni, da essi narrate, all’azione di unguenti composti di sostanze soporifere o stupefacenti. Cominciamo col discutere la seconda ipotesi. Che le streghe si ungessero prima di recarsi al sabba, è risaputo. Già a metà del ’400 il teologo spagnolo Alfonso Tostado, commentando la ‘Genesi’, notava incidentalmente che le streghe spagnole, dopo aver pronunziato determinate parole, si spalmavano di unguenti e cadevano in un profondo sonno, che le rendeva insensibili perfino al fuoco o alle ferite; ma, risvegliate, asserivano di essersi recate in questo o quel luogo, magari lontanissimo, a ‘convegno’ con le altre compagne, banchettando e amoreggiando. Mezzo secolo più tardi, il Della Porta ottenne un identico risultato facendo ungere una vecchia in fama di stregoneria, ed elencando poi minutamente gli ingredienti dell’unguento adoperato. L’esperimento è stato ripetuto modernamente da due studiosi, con risultati discordanti. Sembra tuttavia ragionevole supporre che se non tutte, almeno una parte...














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