giuliano

martedì 13 marzo 2018

LA SFERA DELLA MORTE 1191-1911 (4)

















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La sfera della morte (3/1)

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Il modo giusto di sbagliare 1891-1981 (5)












                                               1911


Owein attraversa successivamente un prato nero, quattro campi, un posto occupato da un’immensa ruota di fuoco…

Ed eccoci d’incanto in altro secolo affranto…





Mi sono chiesto spesso cosa avrebbe fatto il babbo se avesse saputo che proprio in quell’anno avevo anche bevuto il mio primo sorso di whisky. Era successo durante le nostre vacanze estive a Muskegon. Mi avevano dato dei piccoli sorsi di birra anche da bambino. Molte persone in quegli anni pensavano che la birra fosse una bevanda sana, a metà tra un tonico e una medicina. Le attribuivano persino una integrità morale, parlando di un’onesto boccale di birra.
Ma per il whisky era diverso.  
Come ci dicevano i preti e gli editoriali dei giornali, il whisky era il male in persona, e sembrava che venisse distillato all’inferno.
Il mio primo bicchiere me lo feci con un amico di Bluffton, Lex  Neal. A quei tempi aveva 19 anni, due più di me, poi diventò un autore di testi di canzoni, e scrisse anche le gag per me. Era stato appena lasciato dalla bellezza locale, ed ero indignato più io che lui. Ma non mi ricordo più il suo nome. Mi ricordo che era la figlia del Commissario per gli Acquedotti della Contea di Muskegon. ‘Ti proverò che sono un amico vero’, gli dissi, ‘non facendoti ubriacare da solo. Mi ubriacherò anche io’.
Sembrava un giorno perfetto.




Oltre alla tragedia amorosa di Lex, la nostra squadra di baseball aveva perso l’ennesima partita. Né io né Lex avevamo il coraggio di chiedere una bottiglia di whisky nell’unico bar di Bluffton, la Pasco's Tavern. Chiedemmo al signor Feeney, il proprietario di un campeggio per turisti, di comprarla per noi. L’impresa presentava però una difficoltà, perché il campeggio - che poi erano baracche e tende per chi voleva fare dei picnic - era su un rialzo del terreno alto venti metri. Si arrivava al campeggio di Feeney salendo una traballante scala a pioli. Quando il gentile Feeney tornò con il whisky, io e Lex bevemmo tutta la bottiglia in due scambiandoci riflessioni filosofiche sulla perfida natura delle donne. Ci promettemmo anche reciprocamente di non sposarci mai, per quanto fossero belle le ragazze che volevano intrappolarci.
Al calar della sera io ero cotto. Ma Lex, forse perché aveva avuto qualche altra esperienza con il whisky, era in condizioni un po’ migliori delle mie. Fece del suo meglio per aiutarmi a scendere dalla scala a pioli di Feeney. Ma era una notte senza luna, e dopo uno scalino o due caddi giù senza farmi male, perché la sabbia era soffice e coperta da erba molto folta. La mia caduta fece capire a Lex che non ero in grado di andare a casa.



Mi portò a casa sua dove la madre, una vecchia fragile donna del Sud che fumava con una pipa di tutolo, mi mise a letto e mi aiutò, il mattino dopo, a superare i postumi della terribile sbornia. Dopo quell’esperienza non ho bevuto mai più il whisky fino a quando, anni dopo, non andai soldato nella Prima guerra mondiale.
Per circa dieci anni la mia vita seguì lo stesso andamento, fatto di estati di sogno a Booth Tarkington e di inverni passati a fare il clown in giro per la nazione. Mi è sempre piaciuto esibirmi. Ma era un lavoro duro, e c’erano dei momenti in cui non era molto divertente. Per esempio capitò, era una mattina di lunedì, che dovemmo allungare a un’ora e mezza il nostro show di 17 minuti mentre lo spettacolo che veniva dopo di noi sistemava l’attrezzatura dietro le quinte. Quell’attrezzatura era difficile da montare, lo show era una acrobazia motociclistica chiamata ‘Il Giro della Morte del dottor Clark’.
Era un’immensa sfera fatta di strisce (di spirituale forza) di acciaio poste a poca distanza l’una dall’altra. Un ‘motociclista’ vi entrava dentro, cominciava andando piano nella parte inferiore della sfera, poi accelerava e saliva sempre più in alto. L’apice dello spettacolo veniva quando cominciava a fare il giro della morte, a testa in giù, dentro la sfera… Dopo un po’ il direttore ci fece segno che erano arrivate le sezioni della Sfera della Morte. Potevamo sentire i macchinisti che la montavano dietro le quinte. Ma ci sarebbe voluto un sacco di tempo. Quando non riuscimmo a pensare ad altro, il babbo urlò:
‘Tirate su il sipario!’.  




Dietro stavano ancora cercando di mettere insieme la ‘Sfera della Morte’. Io e il babbo ci mettemmo a lavorare di buzzo buono, aiutando i macchinisti, in realtà intralciandoli, facendoci inchiodare i pantaloni e altri pezzi di vestiario alla grande sfera. Nonostante il nostro aiuto alla fine riuscirono a mettere insieme quell’affare, che era puntellato da tutte le parti da travi d’acciaio. A questo punto eravamo stati sul palcoscenico per un’ora e 35 minuti...
Per certe ragioni il babbo si trovava meglio a fare a botte con più di un uomo alla volta. Penso che lo considerasse più divertente per gli avversari. Di certo la sua capacità di combattere con i piedi lo aiutò un sabato quando entrò al Considine’s Metropole, il posto in cui si ritrovavano le personalità dello sport a New York. Il babbo era solo. La mamma giocava a carte alla Ehric House, e io osservavo il gioco.
Tre universitari entrarono ed esplosero in pazze risate alla vista di un omino barbuto al bar.
‘Vieni qui, ebreuccio’, disse uno di loro. ‘Vieni a far festa con noi’. Poi cominciarono a prenderlo in giro e a dargli noia, raggiungendo il massimo del divertimento quando gli abbassarono il cappello sugli occhi. 




‘Lasciatelo stare’, disse mio padre.
‘Allora devi essere ebreo anche tu’, disse uno dei ragazzi.
‘Vi ho detto di lasciarlo stare’, urlò mio padre quando gli altri due cominciarono a spingere l’uomo.
Il terzo disse a mio padre: ‘Ti ho fatto una domanda. Sei ebreo?’  
‘Certo’, annunciò il babbo, facendo rimanere a bocca aperta il barista, che lo conosceva da anni come irlandese. Gli universitari andarono verso di lui. Uno tirò un pugno. Il babbo lo evitò, sistemò uno di loro con i piedi, e con un montante destro fece volare il terzo attraverso la vetrina di Considine’s.
Il barista e il piccolo ebreo guardarono stupiti i vetri e i due giovani aitanti a terra.
‘Bene, cosa ordina signor Keaton?’, disse il barista. Joe si massaggiò le nocche della mano destra mentre pensava, poi disse: ‘Una birra’. Disse poi che stava per offrirne una al piccolo ebreo, ma decise che aveva già fatto abbastanza per lui.
Nel frattempo mentre si beveva la sua birra, uno dei camerieri uscì dal bar e chiamò il grasso poliziotto che era di ronda. Andando con il babbo alla stazione di polizia, il poliziotto chiese: ‘Perché non sei scappato?’.




Un sorriso si allargò sulla faccia di Joe: ‘Ora è troppo tardi?’.
‘Sì’, disse tristemente lui, ‘Ora è troppo tardi. Il sergente sa già tutto’.
Io e la mamma lo venimmo a sapere quando George Howard, degli Howard Brothers, un grande gruppo di suonatori di banjo, irruppe nella sala in cui si giocava a carte. Era il momento sbagliato: la mamma aveva appena puntato 350 dollari a picche, e picche vale doppio. ‘Myra’, esclamò George, ‘Joe è nella stazione di polizia della 47sima ovest. Ha steso tre ragazzi da Considine’s. La cauzione è 250 dollari’.
La mamma che doveva mettere dei guanciali per sedere allo stesso livello degli altri al tavolo, guardò fissi gli altri due giocatori. ‘Apro di 350’, disse con tono aggressivo.
George pensò che la mamma non avesse sentito.
‘Myra, ho detto che Joe è in prigione e...’.
La mamma gli fece segno di stare zitto.
Quando nessuno rispose alla puntata, mise giù la sua scala, giocò la mano e vinse facilmente. Si girò verso George solo dopo aver raccolto la somma vinta e chiese: ‘Di quanto ha bisogno Joe per la cauzione?’.
‘Due e cinquanta. 250 dollari, cioè’.
La mamma si piegò verso la sua borsetta, tirò fuori i soldi, li dette a George Howard, facendogli segno di andare, e disse: ‘Va bene, date le carte..’.

(J. Le Goff  & G. Rossetti & Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)














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