giuliano

mercoledì 29 novembre 2017

LA NATURA MIA MADRE (47)




















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La Natura mia madre (46)

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...&  il loro 'Verbo'... (48)













MA CHI SEI TU CHE PARLI DEL NOSTRO FEUDO!


(sbraita urla impreca e colpisce non vista la calunnia asservita serva del secolar suo prezioso padrone il quale tante volte abbiam dipinto fra una riga fra una strofa fra un Pensiero attraverso il Sentiero di un bosco con cui comporre nobile Natura ma quantunque senza mai dargli un nome degno di qualsivoglia onore giacché anche questo [conferire nome] comporta e sottintende [ed ammette una creazione] una specie un regno sicché nominar tal materia privata di ogni Natura è offendere qualsiasi Dio; ed allora nominiamo ciò che era ed è pur la strana apparenza la quale inganna ogni vista: FEUDO di una Storia mai compresa e condivisa, nella differenza, di chi servo del proprio padrone qual vera propria misera e meschina bassa natura, privata cioè, della qualità del PENSIERO il qual rende - o dovrebbe - l’uomo differente fra ciò che caccia e da cui per sempre cacciato da una vendetta coniata che fanno dell’Elemento, ogni Elemento, padre supremo di una mistica che difetta di pietra calce e architettura e nell’apparente povertà dell’intelligenza, quella, in verità e per il vero, con cui si compone l’Universo intero… privata cioè, del dono della parola… Solo talvolta si ode qualche Verso strano comporre l’antica Rima della vita come un frusciare di chiome come un ululato di lupo come un soffio di vento annunciare la Primavera o l’Inverno ancor più astuto Diavolo taciuto… E come detto il Feudo scalciar l’ordine antico quell’ordine mai compreso… che lo vogliono Secondo e mai Primo in questa Giostra di cui si compone la misera sua vita…)




“Va’ per la tua strada, passa, imperatore, tu sei fermo sul tuo cavallo, io son fermo sul mio cippo, anche di più. Tu passi, io non passo. Perché io sono la Libertà”.

Ma non ho il coraggio di dire cosa accade di quest’uomo.

L’aria gli si fa pesante attorno, e respira sempre meno. Sembra incantato. Non può più muoversi. Sembra paralizzato. Anche le sue bestie dimagriscono, sembra che gli abbiano gettato un malocchio. I suoi servitori muoiono di fame. La sua terra non produce più. Gli spiriti di notte la spogliano.

Resiste:

“In casa propria il pover’uomo è re”.

Ma non lo lasciano in pace.




Viene citato, e deve rispondere alla corte imperiale. Ci va, fantasma del vecchio mondo, di cui nessuno sa più nulla. “Cos’è?” dicono i giovani. “Come, non è signore, non è servo. Allora non è niente?”

“Chi sono?”

“Sono colui che piantò il Primo Albero della che ho arginato i fiumi, ho coltivato l’alluvione, io ho creato la terra, come Dio che la trasse dalle acque. Da questa terra, chi mi caccerà?”.

“No, amico,” dice il vicino, “non ti cacceremo via. La coltiverai, questa terra... ma non come credi…”.



…ED INTANTO LA NATURA SUA FIGLIA…

…Ecco, si prostra, l’adora. Prima gli rende l’omaggio, nelle forme del Tempio, simbolo dell’abbandono assoluto della volontà. Poi il suo padrone, il Principe del mondo, il Principe dei venti, le soffia come uno spirito di tempesta. Riceve insieme i tre sacramenti a rovescio, battesimo, sacerdozio, matrimonio. In questa nuova chiesa, esatto specchio dell’altra, tutto deve essere rovesciato. Sottomessa, paziente, sopportò la crudele iniziazione, sorretta dalla parola: vendetta. Nient’affatto sfinita, invece di perdere le forze alla folgore infernale, si rialzò che faceva paura, gli occhi scintillavano. La luna che, casta, s’era un momento velata, si spaventò a rivederla. Gonfia da far spavento del vapore infernale, di fuoco e di furore, di (novità) un certo qual desiderio, fu per un momento enorme di questo eccesso di pienezza, e d’una bellezza orrenda. Si guardò intorno.




E la natura era cambiata.

Gli alberi avevano una lingua, raccontavano le cose passate. Le erbe erano dei semplici. Certi arbusti che ieri pestava come fieno, erano ora persone, e parlavano di medicina. Si svegliò l’indomani tranquilla e sicura, lontano, molto lontano dai suoi nemici. L’avevano cercata. Non avevano trovato che qualche lembo sparso della fatale veste verde. S’era buttata, disperata, nel torrente? Il demonio l’aveva rapita viva? Chissà. In ogni caso, dannata, non c’è dubbio. Che consolazione, per la signora, non averla trovata! L’avessero vista, l’avrebbero riconosciuta appena. Tanto era cambiata! Solo gli occhi restavano, non brillanti, ma armati di una stranissima luce, poco tranquillizzante. Lei stessa aveva paura di fare paura. Non li abbassava. Guardava di lato; nell’obliquità del raggio, ne ostacolava l’effetto. Di colpo scura, si sarebbe detto che  fosse passata sulla fiamma. Ma chi osservava meglio avvertiva che questa fiamma era in lei, che possedeva un impuro e ardente fuoco… ed aspro è l’inverno, lungo e triste nel tetro nord-ovest suo Regno. Anche quand’è finito, a volte riprende, come un dolore addormentato, che torna, a volte infierisce.




Un mattino, tutto si sveglia addobbato d’aghi brillanti. In questo ironico splendore, crudele, dove la vita rabbrividisce, tutto il mondo vegetale sembra essersi fatto minerale, perde la dolce varietà, diviene rigido e ruvido di cristalli. La povera Natura ora Sibilla, al torpore del misero fuoco di foglie, sferzata dalla tramontana pungente, sente la verga severa nel cuore. Sente il proprio isolamento. Ma proprio questo la sorregge. Ritorna l’orgoglio, e insieme una forza che le scalda il cuore, illumina lo spirito. Tesa e viva, penetrante, la vista le diventa acuta come questi aghi, e il mondo che lei patisce, questo mondo crudele, è trasparente come vetro. Allora ne gioisce, come d’una conquista sua.

Non ne è la regina?

Non ha una corte?




C’è un rapporto evidente tra lei e i corvi. In schiera dignitosa, seri seri, vengono, come antichi àuguri, a parlarle delle cose del tempo. I lupi passano timidi, salutando con occhiate di traverso. L’orso (meno raro allora) a volte si siede goffo, colla sua mole bonaria, sulla soglia della caverna, da eremita in visita a eremita, come sovente si vede nelle ‘Vite’ dei padri del deserto. Tutti, uccelli e animali, che l’uomo quasi non conosce che perché li caccia e li uccide, sono dei proscritti, con lei. Si capiscono. L’Innominato Dèmone è il grande proscritto, e dà ai suoi la gioia delle libertà della natura, la gioia selvaggia d’essere un mondo che basta a se stesso. Aspra libertà solitaria, salve. Tutta la terra sembra ancora vestita di un sudario bianco, prigioniera di un ghiaccio pesante, spietati cristalli uguali aguzzi crudeli.




Lui il Dèmone antico non l’ha previsto, che non si potesse soddisfarla con nessuna creatura. Quel che non ha potuto lui, lo fa un non so che di cui non si sa il nome. A questo desiderio immenso, profondo, vasto come un mare, lei cede, si addormenta. In questo momento, senza ricordi, senza odio né pensiero di vendetta, innocente suo malgrado, dorme sulla prateria, proprio come chiunque altra, la pecora o la colomba, distesa, raggiante; non oso dire, innamorata.

Ha dormito, ha sognato.

Che bel sogno!

Come dirlo?

 Il mostro meraviglioso della Vita Universale si è sprofondato in lei; ormai vita e morte, tutto porta dentro, e al prezzo di tanti dolori, ha concepito… la Natura.

(…ispirato da Jules… & da una Strega…. Ed accompagnato dalle fotografie di: Shane Salzwedel)

















domenica 26 novembre 2017

LA MORTE DEGLI DEI (45)
















Precedenti capitoli:

Quando l'ingegno non conta (43).....

& la Verità divenire immonda Eresia... (44)

Prosegue in:

La Natura mia Madre (46/7)













                                             MORTE! MORTE AGLI DEI PAGANI!






Un monaco enorme, dai neri capelli appiccicati sulla fronte in sudore, minacciava la Dèa giacente a forma di albero: un grande faggio un castagno; colpisce con una forza barbara ed ad ogni colpo, io assiso lontano, traduco una Rima il pianto sommesso da un diverso Universo estraneo e Primo del tempo consumato, mentre Lei, Grande Madre invoca il mio aiuto!

Egli cercava dove colpirla.

Qualcuno consigliò:

‘Sul ventre! Sul ventre! Che non generi i maledetti suoi frutti!’.

Il corpo argenteo si ammaccava deformandosi per i colpi picchiati, martorianti del ventre di Madre Terra, nutrice degli Dèi e degli uomini!
Un vecchio pagano si coperse il viso per non vedere il sacrilegio, Wu-Ming piangeva in silenzio, e invocò la distruzione del mondo intero, la vera Apocalisse, la fine universale di ogni Elemento pregato; la vendetta della Terra, che non avrebbe più dato neppure una spiga agli uomini.




Un strano eremita venuto dai deserti della montagna, vestito di pelli di pecora accompagnato da un’altrettanto strano pastore e calzato con sandali ferrati e un bastone s’avvicinò alla Dèa:

“Per quarant’anni non mi sono lavato dai tempi dell’eremita ‘Giulio il gobbo’ onde non vedere la nudità del mio e suo italico corpo e non essere indotto in tentazione, e venendo in città, mi tocca vedere in ogni angolo i corpi nudi di questi Dèi della malora! Quando finirà questa tentazione demoniaca alla loro nudità preferiamo l’ancora angolare della nostra pietra cementata. E così dicendo, il vecchio colpì rabbiosamente, col sandalo ferrato donato da una offerente Maddalena in attesa vicino al Tempio, il petto di Cibele, accanendosi contro le nude mammelle ricolme di castagne che sembravano più che vive. E non fu neppure troppo contento se non quando le schiacciò a martellate sotto i pesanti talloni.

Tieni! Piglia questo, infame! Puttana! Strega! Piglia su cagna!”.

Ma la Dèa continuava ugualmente a verdeggiare ad ogni stagione e con l’Autunno i colori e le Rime risplendevano dell’Infinito Dio Straniero.

Allora la folla accecata dal miracolo oppure dal Demonio (solo questione di cultura alla rosa dei venti esposta) la prese e la gettò nel fuoco, ma UN OPERAIO IN NOME DELLA NUOVA RELIGIONE PREGATA E APPESTATO D’AGLIO, VOLLE CON FOGA AMMACCARLE IL VISO!




E il rogo si drizzò, enorme, fatto con tutto il legname delle foreste d’intorno, e la Dèa fu gettata tra le fiamme e qualcuno gridò:

“Vogliamo vedere se ne esce il Diavolo! Dicono che ogni idolo a forma di albero contenga il demonio, e le Dee anche due o tre… E quando comincerà a fondere, il maligno avrà troppo caldo e scapperà dalla bocca immonda sotto forma di Serpente a farfugliare Frammenti decrepiti di un Giano ripudiato da questa Geometria degna del nostro gregge alta fin sul campanile contare e coniare il  Tempo della nostra venuta perché così è scritto circa l’immonda Natura… Ricordatevi gente qui riunita due anni sono passati quando abbiamo distrutto il Tempio di Afrodite, vi fu chi asperse la statua con acqua benedetta; ebbene, lo credereste? Dalle vesti vennero fuori piccolini diavolini. Sicuro! Li ho visti con questi occhi. Puzzolenti come animali e poi, addirittura, uno enorme come e più di un cervo con due corna e una coda pelosa, eravamo invasi da queste immonde creature della Terra, tutta la nostra città ne era invasa e solo il nobile cacciatore seppe porre giusto rimedio e sterminarli per poi banchettarli, fu il nostro più grande diletto…




GIAMBLICO PALLIDO COME UN CENCIO, con gli occhi spenti, prese Giuliano per mano e lo trascinò lontano vicino ad un bosco alto ricolmo di Pini e annunciò la sua Profezia:

“Tu Giuliano comporrai in Rima e questi folli dovrai sconfiggere perché sei e sarai RE!…. E sappi”

Continuò Giamblico tenendo la mano tremante di Giuliano, sappi…

“CHE LA BESTIALITA’ NON PUO’ OFFENDERE GLI DEI”

(…Liberamente ispirato dalla feroce morte degli Dèi dall’inviato D. Merezkovskij narrata…)





IL FANCIULLO PARLA per mezzo di storie e leggende….


In quel mondo antico e ancora giovane splendide leggende insegnavano che l’Albero e con lui l’intera Natura ove dimora possiede un’Anima, un grande Spirito! Una di queste è l’Albero della Vita: un’Anima benevola e feconda da cui hanno origine le copiose sorgenti dei quattro fiumi che vanno verso le quattro parti a fondare vita nel mondo. Un’altra leggenda è quella siriaca dell’Albero del dolore: un’Anima prigioniera, vulnerabile, sofferente, sepolta dentro la corteccia. Le due credenze producevano medesimo risultato: un grande rispetto per l’intera Natura da loro edificata.

…L’anfiteatro delle montagne sul primo gradino ha i grandi castagni. Questi costruiscono il venerando ingresso della Foresta. Sono i veri Patriarchi, ortodossi monolitici estranei al divenire del Tempo curvi e chini alle proprie icone pregare la DEA CHE COSI’ LI CUSTODISCE E PRESERVA NEL PROPRIO EREMITAGGIO PIEGANDOLI AL TEMPO TANTE’ CHE I FOLLI - PRECEDENTEMENTE DETTI - NON OSEREBBERO MAI ATTENTARE L’EREMO DI CODESTO SECOLARE ORTODOSSO TEMPIO.




Codesto Eremo così narrato assai grande ed ambizioso nonché fecondo sparge tutt’intorno cinque o sei altri bei Templi e con loro castagni: felice e gioconda posterità che lo rassicura sulle ferite e le perdite che subisce. E per quanto scavato sia, quel tronco originario verdeggia, felice di vedere i diavoli detti, oppure, e forse ancor meglio, quei diletti angeli suoi figli intorno a sé. Il castagno vuole aria e spazio. Ama i diradamenti. Le sue foglie così verdi di vita aperte come mani hanno una forma si direbbe parlante ed io li ho pur uditi nei loro monologhi, nelle loro ortodosse litanie...

Ma la vera Foresta, la vera Cattedrale comincia più in alto, coi Faggi e gli Abeti geni e specchio di un Dio incompreso. Se la loro ombra palesa l’affresco del Primo Dio resuscitato dal gene della Memoria è mistica gradita ammirarne i contorni le prospettive i disegni i fraseggi così ben dipinti fin su in alto là ove si intravede la cima… Lui Genio incompreso, sorride perché sa la sua opera preziosa. Questi Geni annunciati da fedeli e composti Ortodossi non spendono nulla per sé, sono di un cristianesimo primitivo mal compreso per poi leggerlo attraverso ogni cerchio, giacché prima del primitivo annunciato, ancora un altro ed un altro ancora che la resina accompagna la Rima oppure comporre Frammento incompreso di Vita per chi verrà ancora al medesimo Golgota arso...




Nessun lusso! Nessun ornamento!

…Eccetto quando li estirpano dalla propria Chiesa e li vestono ed illuminano alla Materia composta al rogo di uno strano presepe… per poi vederli morire in strani altari: logge e giardini di un immondo peccato così mal celebrato…

Essi salgono e fuggono, infilano come possono le loro esili radici sempre più in alto perché d’incanto dichiarati Eretici e sorreggono l’intera volta dall’Ortodosso castagno ammirata; e quando la montagna scoppia e si riempie di nuove fenditore accompagnate dal secolar crociato liberare la propria Terra e costruire un antico sepolcro di un Dio morto, la montagna e con lei l’intera cattedrale si ode gridare:

FIGLI MIEI TENETE DURO!




Ed ecco che dall’alto come tavole di pietra gettate da un Mosé irato una valanga di pietra a punire cotal Eresia: la Natura va domata non v’è Anima Corpo e Spirito e io qui vi maledico... E un terribile boato: neve ghiaccio cemento calce plastica detriti ferro e fuoco si stacca come un terremoto inaspettato. In questa crociata tutti gridano e urlano… e se non fosse per quegli Eretici aggrappati alla volta della cattedrale tutto sarebbe rovina morte e disastro, loro con i loro papiri di corteccia hanno profetizzato e difeso le mura dalla pietra…

(Liberamente (re)(i)spirato dalla Montagna di J. Michelet)




Alcuni autori affermano che, poco prima della vittoria del cristianesimo, una voce misteriosa percorreva le rive dell’Egeo, dicendo:

‘Il gran Pan è morto’.

L’antico dio universale della natura non c’era più.

Che gioia!

Si pensava che, morta la natura, fosse morta la tentazione. Tanto a lungo sconvolta dalla tempesta, l’anima umana sta dunque per trovare riposo. Si trattava della fine dell’antico culto, semplicemente, della sua disfatta, dell’eclissi delle vecchie forme religiose?

Per niente.



Consultando i primi documenti cristiani, ad ogni riga si incontra la speranza che la Natura scompaia, la vita si spenga, che si giunga finalmente alla fine del mondo. Basta con gli dèi della vita, troppo a lungo ne hanno fatta durare l’illusione.

Tutto muore, crolla, affonda.

 Il Tutto diviene il nulla:

‘Il gran Pan è morto’.

Che gli dèi dovessero morire non era una novità. Molti antichi culti si fondano proprio sull’idea della morte degli dèi. Osiride muore, Adone muore, d’accordo, per resuscitare.

Ma ora è tutto diverso…

I primi cristiani non meno dei nuovi falsi credenti, in generale e in particolare, per il passato non meno dell’odierno futuro celebrato per l’avvenire dell’intero Creato maledicono la Natura in sé. La condannano tutta intera, vedono il male farsi carne, addirittura, il demonio in un fiore. Vengano dunque, meglio prima che poi, gli angeli che sterminarono le città del mar Morto, l’abbiano vinta, rivoltino come un guanto la vana figura del mondo, liberino finalmente i santi da questa lunga tentazione…

(Di più non dico…e talvolta li maledico... nella Natura assiso)  
















venerdì 17 novembre 2017

...E CHI SCESO DAL TRENO (non meno dell'antico veliero) ovvero: LOTTE IN RIMA AL CROCEVIA DELLA VIA (41)








































Precedenti capitoli:

Noi da Mattera andiamo a Folligno.... (40)

Prosegue in:






















Lotte in Rima (& una strega a bordo) (42) &






















...& la demenza scende in campo (ovvero quando l'ingegno non conta) (43)













Una prima rappresentazione della ‘Nave dei folli’ è di Hieronymus Bosch: un dipinto su tavola conservato al Louvre, una metafora subito ricondotta a quella dell’Albero del Peccato originale, da cui derivò la tentazione di Eva.

La Follia assume un carattere paradigmatico: il peccato originale costituisce, in senso mistico, la follia per eccellenza (da curare da estirpare, ricordiamo e rimembriamo il terribile ‘Martello delle Streghe’), è cioè una metafora della ‘colpa’ secondo il simbolismo biblico di cui l’albero della tentazione è divenuto l’esponente.




Sì, il mondo sa che può conoscere, ma, appunto per questo, sprofonda allegramente e tragicamente nel peccato!

Oggi a distanza di secoli da questo testo in Rima da cui talune mie osservazioni che meglio stratigraficamente parlando indagano la terra di cui il ‘colto frutto’. Del resto è innegabile che proprio della ‘follia’ fu vittima l’intera Europa unita qualche decennio neppur remoto…

…Comunque proseguiamo…  

…Oggi dicevo è pur in atto una riforma, medesima,  la quale ai tempi di Brant fu avviata dall’Inghilterra, oggi per sua stessa mano prosegue in difficile ed impervio cammino esulando dall’Europa quindi dalla patria del Brant detto.




Una vecchia contesa?
Una antica sfida?
Una giostra al crocevia di una globalità diversamente interpretata?

Vedremo!

Noi siamo pur folli ma con la pretesa chi il più e vero folle della contesa…




Non pochi, soprattutto in Germania, si sono provati nell’impresa di chiarire le ragioni del successo della ‘Nave dei folli’: in primo luogo, il fatto che la Nave abbia un protagonista ben noto all’epoca, il ‘Narr’, matto, stolto, ‘fou’, ‘fool’, folle, figura che aveva addirittura sanzione ufficiale.
E certo, anche, che il ‘fou de cour’ cominciava ad essere guardato con sospetto dal mondo borghese di Brant (e sottolineo che il Tempo non certo mutato nell’inganno di quanto contato & numerato), non fosse che per i privilegi di cui godeva in un periodo in cui l’assolutismo monarchico veniva messo in forse; appariva, soprattutto, un residuo ‘pagano’, di tempi in cui la monarchia non era posta in discussione, ricordava i nani delle corti bizantine, ottomane, egizie, e i sovrani cristiani erano costretti a mettere la sordina ai loro ‘fools’, in un certo senso ad igienizzarli per renderli accettabili.

Per gli abitanti di città laboriose ordinate apparentemente ligie alle leggi timorose di Dio nelle pratiche delle proprie ed altrui antiche arti metallurgiche frutto di rimembranze di un mondo alchemico mal interpretato (e forse non solo quello) il ‘fool’ era ed è una sopravvivenza che proprio per questo poteva e può assumere una funzione di nuovo tipo, quasi potremmo dire una condizione Ereticale demonizzata dal costante progredire della materia nella propria imperturbabile crescita ed ascesa al medesimo trono del ‘superiore potere’ da cui il vero folle delle masse iper-urbanizzate difetta grazie alla propria follia affine e simmetrica ad una Natura anch’essa impazzita…




La ‘buffoneria’ la satira il sarcasmo, la verità rilevata e rivelata e detta nello specchio dell’altrui paradossale condizione,  in altre parole, venne in pratica espulsa se non addirittura demonizzata dalle corti come dall’intera socialità a 'codice a barre’ composta (ossia il codice morale detto sia modello unno o anglo con i suoi derivati poco marca la differenza qui posta); da ‘topos’ della rivelazione, si trasformò in segno dell’ ‘indegnitas hominis’, ossessiva, i quali contemporanei possono proiettare le proprie follie non meno delle proprie frustrazioni ed ossessioni (come il martello ci insegna), odierni ed antichi ‘contemporanei’  hanno edificato la propria ed altrui ‘dignitas’ quale pietra angolare nella propria ed altrui concezione del ‘Bene’ (con tutte le paradossali condizioni di una filosofia che forse per decenni ha pur mal-interpretato talune manichee condizioni nel Bene poste…), il metro di misura del successo in terra e della salvezza nell’aldilà (non meno che di qua).

L’arma spirituale del folle, la beffa istitutrice del distacco, venne così ad essere rovesciata, servì ai moralisti per denunciare appunto la follia e, di conseguenza, per legittimare ogni passata presente e futura persecuzione. Bisognava persuadere il folle a rinunciare alla sua follia (mezzi e metodi in questa sede mi astengo nell’enumerare); la Buffoneria andava pertanto messa a bando, rimossa, ed entro le mura della nuova città proibita (non avendo per il vero intuito bene la grande selva del Karma della vita) non doveva esserci più posto per l’eccesso (l’inizio del ghetto, in ricordo di un altro passeggero – fors’anche anche lui sceso da ugual vagone armeno di nome con la bocca cucita fedele a codesta disciplina impartita che da una stazione ad un porto corre fino al binario morto dell’intera linea… così asservita…); questa patologia ‘buffonesca’ nei termini della Memoria deve essere messa al bando ed essere circoscritta e relegata nel disordine organico se non addirittura patologico (avremmo tristi accadimenti circa codesti principi): la selva e l’intero bosco e con questo tutta la Natura deve essere finalmente redenta, cristianizzata secondo i principi della Riforma o Controriforma.




Nell’epoca di Brant non meno dell’odierno la dimensione che si impone è quella della Città globalizzata non più minacciata dalla selva, dalla foglia dalle stagioni che da queste derivano. Ogni selva è pur buona per il calore nel rogo che da questa deriva ed unicamente principia.

Qualsiasi diverso argomento sarà materia di una antica per quanto odierna Ortodossia!

Numerosi sono i dipinti tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento in cui si illustra l’estrazione della pietra della follia: un’operazione cruenta, che fa urlare di dolore il povero matto sottoposto all’azione implacabile e connessa (di più folli) di un metodo, cioè, feroce, dato che all’inizio del ‘genere’ era stato un ‘santo’ a provvedere, con tenerezza, alla bisogna. Non vi è posto nell’Universo ritmato e musicato di Brant, per il folle sogghignante che in mano regge probabilmente la marotta, o forse il bastone del nuovo pellegrino fuggito da queste città quanto dal secolare destino che tutte le accumuna: la crociata pugnata del falso per-benismo alla mecca del grande peccato globalmente consumato. Quindi non solo il Diavolo è folle, come si ostina a proclamare Brant, ma i pochi che si salveranno pellegrini anche loro sulla ‘barchetta di San Pietro’ nell’eterno paradosso da cui la condizione di una certa cultura posta fra Riforma e Controriforma, si incrocia nell’orgia e sconcio che ne deriva, il qual ‘folle’ indica esule per costretta natura da cotal pornografia… quotidianamente servita…

Qual è dunque l’antecedente, il modello della follia di Brant in rappresentanza della propria ed altrui genetica comporre futura rima?

È LO ‘STUPOR’, LA MANIA, L’EK-STATIS ACCOMPAGNATE ALLE VISIONI DI UN COMPROVATO E POPOLATO MISTICISMO  STRANIERO ALLE LORO SECOLARI DIMORE…

Il posseduto in compagnia dell’antica possessione diabolica, e se in passato erano e sono frati e preti (quantunque e sempre dottori al capezzale dell’eterno sciamano)… in Brant va demandata alla nuda persecuzione, e concludo: è ancora da venire l’inserimento della follia nel quadro clinico, giacché abbiamo aperto il post con un quadro e con un quadro intendo concluderlo essendo state create le dovute premesse nelle radici di medesima pianta nell’esclusione di ogni diritto e con lui il giusto godimento nella visione della Vita e con essa dell’intera Natura che certo il ‘folle’ più di una macchina capisce comprende e traduce…

E per questo ancor più folle….

(...PROSEGUE....)
















martedì 14 novembre 2017

UN PASSEGGERO A BORDO (& un condannato al binario morto ovvero il Progresso) (38)












































Precedenti capitoli:

Ruscelli d'Autunno (37)

Prosegue in:

Secondo Passeggero (a bordo... insomma si fa per dire...) (39) &

...Noi da Mattera andiamo a Folligno... (40)













….Due mesi dopo l’assassinio di John Kennedy, Robert compì un viaggio in Asia seguendo un itinerario che in origine era stata programmato per JFK. Nel corso di esso fece visita ad una scuola femminile nelle Filippine dove le studentesse cantarono una canzone che avevano composto in onore del fratello…




…Ho già letto una decina di pagine del dramma di quest’uomo e dell’intera sua famiglia e certo mi sto appassionando alla vicenda, ad un certo punto il passeggero qui assistito osserva: ‘Però questa frase non mi suona nuova. Tutto questo paesaggio, anzi, mi sembra di averlo già letto’….




E’ chiaro: sono motivi che ritornano, il testo è intessuto di questi andirivieni che servono ad esprimere il fluttuare del Tempo. Se un lettore e/o un controllore addetto alla linea sensibile a queste finezze, tu, pronto a captare le intenzioni del macchinista, e nulla ti sfugge. Però, allo stesso tempo, provi un senso di rabbia mista a disappunto; proprio ora che cominciavi a interessarti al paesaggio scorto dal finestrino, ecco che l’autore si crede in dovere di sfoggiare uno dei soliti virtuosismi letterari introdotti nel testo cosa fra l’altro poco gradita, questo okie che si infila come un pirata dentro un vagone merci, oppure, addirittura, entro strane celle frigorifere ove il clima ben regolato con il rischio di verificare quegli sbalzi termici dovuti alla linea così asservita e ben monitorata.
Allora dicevamo, l’autore si crede in dovere di sfoggiare uno dei suoi soliti virtuosismi acrobatici nonché letterari, rimane solo il dubbio amletico qual autore e qual Tempo! Ripete un capoverso, ci sono anche degli errori, talvolta sembra un bambino perso un mondo astratto poetico.

Un capoverso?




Ma è una pagina intera, puoi fare il confronto fra ciò che autorizzato esporre in evidenza il classico codice a barre come un treno incrociato poco fa’ ove ogni passeggero ben inciso nel proprio tatuaggio, ma anche questa è una storia già detta; e fra ciò di cui uno strano Spirito fuggito suggerire e andando avanti di questo passo cosa succede?
Nulla, la narrazione si ripete identica e fedele al marchio di fabbrica!

Un momento guarda il numero della pagina del testo citato…

Accidenti!

Da pagina 32 è tornato a pagina 17.

Quella che credevi una ricercatezza stilistica dell’autore non è altro che un errore di grammatica o peggio della tipografia o addirittura del copista: hanno ripetuto due volte le stesse pagine, sbagliano ponti incroci e riferimenti. E’ nel rilegare il volume che è successo l’errore: un libro è fatto di ‘sedicesimi’; ogni sedicesimo è un grande foglio su cui vengono stampate 16 pagine e viene ripiegato in 8; quando si rilegano insieme i sedicesimi può capitare che una copia vadano a finire due sedicesimi uguali; è un incidente che ogni tanto succede.




…Comunque sia, tu vuoi riprendere il filo logico della lettura, non t’importa null’altro, eri arrivato ad un punto su questo binario morto in cui non puoi saltare neanche una pagina.
Ecco di nuovo pagina 31, 32… E poi cosa viene? Ancora pagina 17, una terza volta, ma insomma cosa fa’ il controllore, ma che razza di libro t’hanno promesso, anch’io debbo fare il mio viaggio retribuito e ben pagato, su questo libro o scusate su questa linea non si può fare affidamento.

Scagli il libro e pugni contro il finestrino urli e imprechi, lo lanceresti assieme all’intero convoglio fuori dalla finestra ammirata, che triturino i suoi incongrui quinterni, le frasi le parole i morfemi i fenomeni zampillino senza potersi più ricomporre in discorso e io debbo pur scriverci il mio comizio in questa campagna innevata….; attraverso i windows, se sono infrangibili meglio ancora noi siamo una razza speciale casta servo assistita dalla immancabile Compagnia, scaraventare il libro ridotto a fotoni (guardo solo quelli… le parole non riesco più a leggerle dalla rabbia si è alzata una nebbia strana…), vibrazioni ondulatorie, spettri polarizzati; attraverso il muro, che questo treno con il suo libro si sbricioli in molecole, diventi peggio di Oswald ed i suoi compari.




Vorresti gettarlo fuori dalla casa, fuori dall’isolato, fuori del quartiere, fuori del comprensorio, fuori dall’assetto territoriale, fuori dall’amministrazione regionale, fuori dalla comunità nazionale, fuori del mercato comune, fuori dalla cultura occidentale ed orientale, fuori dalla placca continentale, dall’atmosfera, dalla biosfera, dalla stratosfera, dal campo gravitazionale, dal sistema solare, dalla galassia, dal cumulo di galassie….

…Poi magari ci scrivo un bell’articolo sulla disuguaglianza sociale sul razzismo sulla differenza in sedicesimo fra il mio e il suo strano libro in questa linea morta….

Ed invece no!




Raccogli il tutto, fai finta di nulla e corri dal libraio dal bibliotecario dal portiere di questa grande libreria della Storia. Ti lamenti e imprechi, mentre alla fermata il fischio annuncia e conta il Tempo senza Tempo dell’attesa del gesto calcolato….
Insomma in questi scaffali ben ordinati e composti in questo edificio ben solido cosa questo strano (ri)piano cela e vorrebbe pur dire senza nesso e ragione e il dovuto codice che fa della nostra linea la super-veloce per ogni secolare accadimento. Non vedi l’ora di riavere in mano un esemplare non difettoso del libro su questo vagone morto fermo in una strana ed incomprensibile metafisica attesa.
Passi una notte agitata, il sonno dei giusti è un flusso intermittente e ingorgato come la lettura o il viaggio più che scontato del tuo romanzo, l’indomani, appena un momento di tempo in questo tempo privato della freccia a distinguere il regolare flusso di vita e con essa della ragione… corri in libreria; entri nel negozio nel vagone merci predestinato, la vita è un flusso indeterminato di nascite partenze e soste senza tempo ed urli, o forse il contrario, un Secondo misurato ed afflitto dallo Spazio della materia calcolata che urla e vomita bava in nome dell’economia: ‘ma cosa mi ha venduto… ma guardi… Proprio sul più bello, io debbo fare la mia campagna il mio articolo il mio grande panorama il numero preferito dell’equilibrista sull’onda del successo…’.




Il librario il portiere il custode l’affidabile impiegato della Compagnia non si scompone.

‘Ah, anche lei? Già ho avuto diversi reclami lungo quella linea super-veloce in verità più lenta di un accelerato. E proprio stamane mi è arrivato un aggiornamento dai Messaggeri di Stato. Vede? Nella distribuzione delle ultime novità del nostro listino, una parte della tiratura del volume “Se una notte d’inverno un viaggiatore” risulta anch’essa difettosa. Ci dia il dovuto e più che nominato tempo, verifichiamo questa linea, per un errore di assemblaggio i fogli di stampa si sono mescolati con quelli di una diversa linea, lei capisce…, qui abbiamo un’infinità di passeggeri e treni in  transito'.

Ed allora in quale romanzo, mi scusi in quale tratta ci troviamo?

La direzione e partenza è verso il Commissariato dell’Industria Pesante Robotizzata, lì potrà fare il dovuto reclamo.
Penso: andrò a trovare il mio amico, è l’amico più caro che ho in città. A differenza di lui, dal suo finestrino non si muove, ed anche il giorno che salgo a cercarlo lo trovo lì uno strano tatuaggio sulla mano! E mi pare intento a mansioni di stato: sta pulendo una rivoltella a tamburo, e mi apostrofa.
‘Allora, sei venuto a mettermi in trappola anche tu….’.
‘O ad intrappolare gli altri’, rispondo.
‘Le trappole sono come gli incroci per questa linea, uno dentro l’altro e scattano tutte insieme’.




Sembra voglia dirmi qualcosa.

Il palazzo in cui sono installati gli uffici del Commissariato dell’Industria Robotizzata del Popolo confiscato dalla rivoluzione è ingombro da cineserie e cinesi stipati dietro strani finestrini minuscoli vagoni in attesa del domani.

‘E chi vorresti intrappolare in questa pagoda? Una regina orientale?’.

Da dietro lo scompartimento esce una donna: capelli corti, magra, bel profilo.

‘I sogni maschili non cambiano, con la rivoluzione del popolo', ed è il sarcasmo aggressivo della sua voce.
'Vedi? Ci sono orecchi che ascoltano ogni nostra parola', mi dice il mio amico, ridendo.
‘La Rivoluzione non fa il processo ai sogni, Irina’, le rispondo.
‘Né ci salva dagli incubi’, lei ribatte!
‘Ci siamo incontrati in un sogno’, dico io, stavamo precipitando da un ponte ed io ti ho salvato.
‘Le vertigini sono ovunque’, mi risponde cinicamente lei.




Il Viaggio riprende il suo lento procedere, ora lo spazio che deve percorrere con il suo panorama sovraccarico, denso, teso: correnti fuori e dentro lo scompartimento, occhi incrociati di sbieco più nessuna intimità, diffidenza densa come fumo, ammiccamenti e falsi compromessi condiscono il resto.

Fuori giganteggia come una grande insegna appannare uno strano Olimpo il vero dramma di questo nostro groviglio essere e divenire in questo sodalizio: il segreto che porto dentro il mio cuore offeso macellato, e non posso svelare né al mio amico ne ad Irina, dèa di un lontano ricordo: scoprire chi è la spia robotizzata intrufolata nel Comitato Rivoluzionario del popolo, i piani quinquennali agricoli prevedono diverso panorama attraversato, aspettavo la morte, e scopro la condanna del Tribunale del popolo per alto tradimento firmata e controfirmata

Mi precipito verso un altro Eretico Viaggio….














            

giovedì 9 novembre 2017

GO WEST BABY! (ovvero quando gli opposti coincidono...) (35)

















































Precedenti capitoli:

The Far East (34/1)

Prosegue in:

Pellegrini & Predicatori (36) &












Ruscelli d'Autunno (37)














Lo abbiamo già enunciato in diverse premesse citazioni e pensieri rafforzati anche da valenti ‘manifesti di cultura’, del resto tutto il lavoro fin qui espresso (circa il ‘libero arbitrio’ & in siffatta patria qui disdico e più non dico in quanto l’apparenza compone la maschera al teatro della dubbia e propria falsa consistenza e scena all’atto del Tempo imposta…)  sia come curatore di blog che come, non dico cronista - ma semplice osservatore di eventi - e  critico con gli stessi si pone sempre avverso al sistema e quindi ‘Eretico’ (onestamente perseguitato) per quanto giudicato ‘Ortodosso’.
Quindi non contrari all’economico progresso e/o all’‘uomo moderno’ che si perfeziona nella costante sua progressione (sempre e comunque sia a danno degli altri, cosa fra l’altro estranea al regno ‘naturale’ donde il tutto derivato, e codesto enunciato esula dalle sue naturali premesse rendendolo [l’uomo] sì evoluto ma incapace di quella propria e specifica coerenza che lo distinguono sempre e solo come il vero ed involuto predatore di Madre Terra) bensì propensi a giudicarne contenuti e forma (sia politica che capitalistica); e come questo si snoda ed arreca conseguente ed irreversibile danno, non a beneficio della società e socialità in cui posto, ma nel costante inganno arrecato ed offerto, specie in questi ultimi cento anni verso popoli e culture, e nell’insieme, quella ‘sacralità’ appartenente alla nostra quanto altrui genetica in quanto la reale manifestazione del detto ‘progresso’ tende a rimuovere valori comuni a beneficio di interessi mai collettivistici (anche se in apparenza giudicati tali), ma bensì per i pochi soggetti i quali nell’economica industriosità ne godono impropriamente i frutti non perseguendo quegli obiettivi confacenti con il territorio occupato secondo i meriti di una saggia e retta (geo)politica, ma al contrario tendono ad appianare ogni possibile compromesso soggiacente alle condizioni in cui l’uomo nato ed evoluto misura le distanze fra la corretta interpretazione dell’evoluzione così come rivelata e rilevata, e, in verità e per il vero, impropriamente adottata…




Quindi come già detto mi ripeto in cotal ‘manifesto’:

L’avvento dei nuovi Signori della Terra scatenerà anche una guerra senza quartiere per il dominio e il saccheggio [della Terra], combattuta con le sobrie ed invisibili armi della tecnica. Si tratterà della lotta per lo sfruttamento illimitato della Terra come materia prima e per l’impiego senza riserve del ‘materiale umano’ al servizio del potenziamento assoluto della volontà di potenza nella sua essenza… Sotto la pioggia di bombe che distrugge secoli di storia d’Europa, anche il politico moderno viene dunque ridotto in macerie con la sua aspirazione a svolgere un’azione di direzione e di governo totale. Nessun Fuhrer può più illudersi di guidare le sorti del mondo, senza obbedire egli stesso per primo agli imperativi del comando che guidano l’assalto tecnico. Per questo la sconfitta storica del nazismo nonché medesima del comunismo non annunciano e premettono e/o risolvono la fine dell’èra del totalitarismo, ma solo l’ingresso in una nuova fase, dal volto meno truce e sinistro. Si comprenderà altresì come non poter immaginare come ‘salvatori’ gli Alleati assieme ai Sovietici (non meno dei cinesi), entrambi di altre forme altrettanto inquietanti di potenze nichilistiche, orientate al medesimo dominio planetario. Russia e America (e come vediamo anche ai nostri giorni: la Cina) rappresentano entrambe la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato e mercificato. 




La dimensione dominante in queste realtà ‘virtuali’ è quella di un desolante livellamento, causato dalla riduzione di ogni cosa all’estensione e al numero; tutto risulta uguale e indifferente, al punto che questo puro quantitativo si è trasformato in una sorta di qualità. Già nel 1939 tutta l’umanità appare ormai minacciata da quell’uniformizzazione quale supremo e vero pericolo. Essa è un fenomeno di carattere planetario che nella sua forma essenziale presenta senz’altro gli stessi tratti in America e in Russia come in Cina, in Giappone e in Italia, in Inghilterra e in Germania, e che curiosamente è indipendente dalla volontà dei singoli, dalla specie dei popoli, degli stati, delle civiltà. Al di là, quindi, delle differenti ideologie proclamate e dalle differenti forme storiche assunte, il presupposto ‘metafisico’ della tecnica già risuonava nella formula annunciata da Lenin, secondo la quale il bolscevismo è ‘potenza dei sovietici + elettrificazione’. …Il pensiero-calcolante cattura ormai tutti i popoli della Terra, finendo con l’assumere il senso di un destino mondiale, infatti sul piano della Storia dell’essere il materialismo proclamato dal marxismo va ricondotto all’essenza della tecnica in virtù della quale ‘tutto appare come il materiale da lavoro’ e su questo piano, dunque, esso mostra di avere il medesimo fondamento dell’americanismo. 




Così come il nazionalismo e internazionalismo, poggiando sulla stessa metafisica della soggettività, finiscono per essere indistinguibili, allo stesso titolo di collettivismo e l’individualismo. Nitzsche aveva infatti preconizzato: ‘Si avvicina il tempo in cui sarà ingaggiata una lotta per il dominio della Terra – sarà ingaggiata nel nome di dottrine filosofiche fondamentali, ma lo scontro epocale tra nazismo, comunismo e americanismo, che ha insanguinato la storia del Novecento, conclusosi infine con il trionfo della superpotenza americana, si rivela in ultima istanza, al di là del piano storico dello scontro tra ideologie contrapposte, lo scontro tra gradi e forme diverse di una medesima volontà di potenza che, attraverso la tecnica, intende imporre il proprio dominio sull’intero pianeta. E non c’è dubbio che, da questo punto di vista, l’America abbia saputo con maggiore efficacia imporre il proprio modello totalitario, proprio perché meglio delle altre potenze in gioco, è stata in grado di travestirlo nel suo esatto contrario, sostituendo l’edonismo consumistico al terrore, la pubblicità alla propaganda, il regno della (apparente) libertà e della libera realizzazione degli interessi di ciascuno all’assoggettamento disciplinare delle masse asservite al consumismo materialistico. Per questo oggi, avendo saputo coniugare la necessità della tecnica con il liberismo economico, ha assurto il ruolo, con fede missionaria, di incontrastata promotrice di una Tecnica che promette libertà (di impiegare e consumare risorse) e felicità (nel ‘libero’ impiego e consumo), divenendo, anche, politicamente la prima potenza mondiale.
(C. Resta, Nichilismo Tecnica Mondializzazione)




Quindi da saggio ‘manifesto’ detto dal Far East procediamo simmetricamente in questa doppia linea in cui corre l’alta velocità della vita verso il Go West per i futuri Baby che correndo non si accorgono, in verità e per il vero, di procedere verso il baratro del viaggio della vita, anche quando questa celebra(va) il Grande Regno del Sacro non  protetto né pregato e/o rinnovato entro e fuori le grandi muraglia dell’impero [medesimo impero], bensì cancellato ad uso e consumo di chi pur viaggiando e correndo cieco di quanto Sacro creato nel nome e per conto del Creato e fors’anche di un comune Dio celebrato sacrificando al materialismo un Paradiso in Terra nell’Inferno fondato…

Saliamo sul treno detto….  

Nel non lontano 1873, dopo la Guerra di Secessione (in verità e per il vero non ancora del tutto terminata…) in America la struttura finanziaria della nazione somigliava ad un grande bacino imbrifero. Man mano che la massa monetaria grazie alle grande compagnie ferroviarie affluiva nel grande bacino finanziario al centro di Manhattan, i banchieri ne investivano buona parte in prestiti a vista a brevissimo termine ed alto tasso d’interesse agli operatori di borsa, legando le sorti delle nuove comunità rurali cresciute dai territori sottratti ai nativi più sperdute all’andamento del mercato azionario (il sistema non certo mutato solo evoluto ed esportato, non si può negare l’umor di Stato compiaciuto del proprio operato quando l’Agenzia di turno offre il voto allo ‘scolaro in servizio’ incidendo sulla vita politica ed economica di una intera nazione e/o unione…, tacendo però sul vero senso del bene goduto e a chi sottratto, e altresì, negando quanto danno arrecato… nel TEMPO E LA MEMORIA COSI’ OFFESE E DEGRADATE).
A partire dal Novecento, il sistema della Federal Riserve avrebbe semplificato molto i grandi movimenti di denaro attraverso il paese. Durante tutto l’anno grandi quantitativi di contanti di denaro si muovevano verso New York per tornare in autunno verso le zone dei terreni agricoli. E viaggiavano tutti in ferrovia. Le Compagnie ferroviarie non maneggiavano direttamente i carichi di beni ma anche di contanti; il grande potere delle grandi Compagnie ferroviarie – le prime grandi società ad emergere negli Stati Uniti – sbalordiva il nascente capitalismo americano. “La società moderna ha creato una classe di esseri artificiali che promettono di diventare ben presto i padroni del loro creatore”….




...Nella primavera del 2002 a Lhasa stava cambiando tutto...

Le politiche scelte per potenziare la campagna ‘Go west’ stavano trasformandosi da progetti in imprese reali, destinate a mutare il Tibet in una civilizzata società post-industriale simile a Pechino, Shangai o al centro manifatturiero di Shenzhen. Era una visione che meritava molto di più di una ferrovia. In realtà, richiedeva la precipitosa urbanizzazione non solo di Lhasa, ma anche dei più piccoli villaggi delle regioni più rurali. Nel nono piano quinquennale per la TAR del 1996, il governo centrale aveva richiesto la creazione di più di 70 nuove cittadine e di diverse grandi città entro il 2020. Quegli obiettivi, che erano stati vagamente definiti decenni prima, quando Mao aveva dichiarato che la popolazione del Tibet avrebbe dovuto raggiungere i 10 milioni, ricevevano ora una grossa spinta dalla nuova audacia della Cina.

Il primo passo della nascente trasformazione del Tibet implicava l’eliminazione di ogni infrastruttura antiquata, con un processo che era iniziato a Lhasa nel 2002 (ancor prima, come già enunciato nel...1950), poco dopo il disgelo primaverile. Se ci spostava in direzione ovest sulla Bejing Donglu, verso il torreggiante palazzo del Potala, la città appariva sottosopra. I crescenti tormenti dello sviluppo facevano sembrare i quartieri situati tra Barkhor e la piazza del palazzo appena bombardati. Solo l’angolo di una strada manteneva la caratteristica architettura tibetana sbandierata sugli opuscoli turistici, cioè un muro a forma lievemente piramidale ricoperto di calce che splendeva al sole. A poca distanza, l’intera città era coperta da cumuli di macerie. Una piccola strada, delimitata da pochi muri sinuosi che erano sopravvissuti alla distruzione, portava a quello che era stato un cortile centrale, il nucleo tradizionale degli edifici residenziali di Lhasa.




Una donna anziana, sua figlia e la nipotina erano sedute fuori da una porta e cercavano di proteggere le scodelle di ‘noodle’ dalla onnipresente polvere delle demolizioni. Vicino a loro ondeggiava un enorme telone di plastica blu che sostituiva uno dei muri demoliti. Le donne avevano la bocca protetta dal filtro dell’immancabile velo. Vicino a loro si estendeva un’area desolata coperta da nubi di polvere, dove alcuni uomini, in cima a mucchi di macerie bianche di circa cinque metri, facevano ruotare le mazze in lunghi archi fluttuanti per poi abbatterli ovunque fossero ancora rimaste parti di muro intatte. La donna più giovane spiegava che la polizia annunciava ai residenti la demolizione solo quando era il momento che se ne andassero. Lei e la madre aspettavano la notizia da un momento all’altro, ma non sapevano dove andare. La campagna di demolizione della gran parte di Lhasa, quasi simile a quella che si stava conducendo quell’anno a Pechino nei tipici quartieri ‘hutong’, raggiunse il culmine nel maggio del 2002. Allontanarsi da un quartiere per ventiquattro ore significava tornare e trovare che aveva cambiato aspetto, che un altro edificio era stato distrutto e al suo posto erano già stati alzati nuovi ponteggi. Come un mare crescente, i negozi cinesi e i portici che si erano insediati all’estremità occidentale di Lhasa stavano lentamente avanzando oltre il palazzo del Potala verso il Barkhor, il quartiere più caratteristico, più sacro e più tibetano della vallata. Alla sua estremità meridionale, gli antichi edifici lungo il fiume Kyichu venivano demoliti a ritmo devastante per far posto a nuove costruzioni. Il santuario storico del Barkhor era preso d’assalto. 




Stranamente, in quell’epoca i turisti preferivano vedere l’altro aspetto di Lhasa. In effetti, visitare la città nel 2002 significava entrare in una specie di caparbio stato di negazione che si appoggiava sulla sopravvivenza di un numero ancora sufficiente di aspetti tipicamente tibetani, come i templi profumati di incenso e i monaci vestiti di giallo zafferano. La guida del Tibet di ‘Lonely Planet’ non dedicava più di qualche decina di parole alle parti della città esterne all’area del Barkhor, come se non esistessero. I visitatori si addentravano in giri senza fine per il Barkhor, visitando il tempio di Jokhange quello vicino di Ramoche, fotografando i pellegrini tibetani con gli abiti dai colori vivaci che erano arrivati a Lhasa dalla campagna, poi sorseggiavano un aromatico ‘masala’ indiano o un ‘daal baat’ tibetano in un caffè destinati ad attrarre il gusto degli occidentali. Quando ne avevano voglia abbastanza del Barkhor, potevano prendere un taxi per il Potala o fino ai grandi monasteri vicini, come quelli di Drepung e Sera, o al massimo organizzare un giro in jeep nei dintorni. Per gli stranieri era illegale usare i servizi pubblici verso le principali mete turistiche fuori Lhasa, ma, da quando Pechino aveva identificato il turismo come uno dei pilastri della regione, non mancavano le guide e neppure le agenzie. Mentre scivolavano da una stradina all’altra, i viaggiatori scrutavano minuziosamente ovunque, in una silenziosa competizione per scoprire gli angoli più genuini, evitando di instaurare legami tra loro per salvaguardare le loro private fantasie alla Francis Younghsband: ognuno avrebbe potuto essere il primo occidentale a scoprire la vera Lhasa in mezzo alle macerie. Ma più sovente si lamentavano della città imperfetta che avevano trovato. Secondo alcuni, Lhasa era stata ridotta a un deludente crocicchio di turisti sulla strada verso l’Everest, il Nepal o l’Occidente incontaminato del Tibet.




Un antropologo espatriato, Matthew, cercava ogni tanto di scrollare gli occidentali dalla loro miopia, sfidandoli a guardare a occhi aperti il Tibet in via di estinzione. ‘Il fascino del Tibet è in qualche modo una serratura a tempo, sopravvissuto a diversi cambiamenti,e la gente vuole afferrarlo in qualche modo’, mi spiegò. ‘La maggior parte dei turisti va in Tibet per qualcosa di esotico: c’è questa idea di vedere che cosa riusciamo a catturare di quanto esisteva precedentemente, ignorando che cosa c’è adesso’.
Ma mentre molti occidentali scrutavano il passato con la lente d’ingrandimento, i cinesi tenevano sempre di più gli occhi fissi sul futuro. Al centro dei rapidi cambiamenti nelle strade di Lhasa c’era il grande dilemma moderno della Cina: come sarebbe stato possibile trasformare le province più povere da un passivo a un attivo?
Per quattro anni, Pechino accompagnò il Tibet verso un maggiore grado di autonomia e una rinascita religiosa che erano diventati inimmaginabili da quando il Dalai Lama era fuggito in esilio nel 1959. Furono eliminate le tasse e il Paese ritornò alla proprietà privata, dopo che vennero smantellati gli ultimi pezzi del sistema delle comuni e i resti del grande balzo in avanti. I cambiamenti ebbero un effetto immediato e positivo sul benessere dei tibetani. Al centro di quelle politiche c’era la consapevolezza che fosse possibile ricondurli all’ovile del comunismo attraverso il progresso e lo sviluppo economico più che con la forza bruta.




Ma alla metà degli anni’ 80, forse sentendosi sicura degli sforzi politici fatti, Pechino cambiò la politica di riforme, allontanandosi dalla ricerca di progresso per i tibetani e sostituendola con un’aggressiva modernizzazione economica, definita su scala nazionale più che locale. In quegli anni di riforme, però, i tibetani avevano rafforzato la loro identità culturale. La rinascita dei monasteri e la fiorente cultura religiosa contribuirono alla crescita di un senso di indignazione nei confronti dei cinesi e un inorgoglito desiderio di protestare a voce alta. Nel settembre del 1987, i monaci inferociti dalla risposta al vetriolo della Cina agli sforzi del Dalai Lama per risvegliare la consapevolezza internazionale sulla situazione tibetana, protestarono fuori dal tempio di Jokhang. Più di una decina furono arrestati e, di conseguenza, scoppiò una rivolta di solidarietà. I tibetani assaltarono e incendiarono la stazione di polizia del Barkhor. La polizia cinese sparò sulla folla dai tetti, uccidendo dieci persone e ferendone moltissime altre. Le agitazioni e la tensione continuarono per un anno e mezzo. Intanto il Dalai Lama conduceva una campagna di opinione, rivolta ai governi occidentali, per far conoscere la causa dei diritti, se non dell’indipendenza, del Tibet, che gli fece vincere il Premio Nobel per la pace nel 1989. Ancora una volta, Pechino fu costretta a restaurare l’ordine sulle sue rauche frontiere e nominò segretario del partito nella TAR Hu Jintao, il giovane governatore della provincia del Guizhou, uno dei candidati alla presidenza del partito. Con la prospettiva di succedere a Jiang Zemin, Hu non poteva permettersi errori. 




Il giorno dopo la sua nomina, la polizia represse un’altra protesta nel Barkhor, questa volta sparando direttamente a chiunque facesse sventolare una bandiera del Tibet. Un mese dopo, Hu si recò a Shigatze per incontrarsi con il Panchen Lama, che però gli oppose una certa resistenza, prendendo al volo l’opportunità per criticare apertamente il dominio della Cina sul Tibet, con un lacerante ed insolito richiamo ai leader di Pechino. Cinque giorni dopo, nonostante fossero note le sue buone condizioni di salute, fu trovato morto nel monastero di Tashi Lhunpo, dove viveva, apparentemente per un infarto: la sequenza di eventi portò molti tibetani a convincersi che Hu avesse qualcosa a che fare con quella morte. La rabbia crebbe. I tibetani si resero conto in fretta che per loro, senza protezione del Panchen Lama, l’epoca delle riforme liberali era alla fine. Nel mirino della strategia di controllo cinese c’era la religione. Hu Jintao riteneva che la diffusione della religione in Tibet fosse del tutto inconciliabile con gli obiettivi delle ‘quattro modernizzazioni’ che definivano la politica economica cinese: la religione, come sostenevano lui e molti altri conservatori, coltivava il nazionalismo. I tibetani dovevano creare un mercato basato sui beni materiali, non pregare i Buddha dorati o il Dalai Lama, la cui testimonianza in tutto il mondo dava parecchio fastidio a Pechino. Da allora, il governo iniziò un periodo di intensa repressione delle pratiche religiose nei monasteri. Attraverso un processo di ‘rieducazione’, i monaci dovettero studiare testi di propaganda cinesi per poi essere interrogati a fondo e dimostrare la loro lealtà, e a volte erano mantenuti in isolamento per molti giorni. Il governo chiedeva che disconoscessero il Dalai Lama e giurassero la loro fedeltà al Partito comunista. Quelli che rifiutavano venivano imprigionati, altri si suicidarono. Il risultato fu che il sistema monastico, che aveva iniziato a ricomporsi negli anni 80, fu di nuovo travolto e i tibetani dovettero sottomettersi ai cinesi un’altra volta.




Il governo cinese ritiene che per il 2020 saranno necessarie più di 85.000 camere d’albergo (per non parlare di futuri campi base organizzati per l’avventura della cima), non solo a Lhasa ma bensì nel grande deserto probito agli stranieri di un tempo: la richiesta di sviluppo turistico dell’altopiano attraversato dal Grande Treno (portatore di merci persone e contanti per ugual Riserve a cui destinare futuri ‘riservisti’ confinati entro e non oltre il proprio territorio come la Storia conserva atroce memoria); ed intanto il treno di lusso con il proprio prezioso carico di circa 1000 $ a notte offrirà ai turisti appartamenti da 38 metri quadri con sale da pranzo private e vasche da bagno con l’acqua calda…. Se si valuta come starebbe il Tibet (e la sua antica scienza Sacra) con noi o senza di noi, è chiaro che starebbe meglio con noi, dichiarò lo stesso - uno dei tanti e troppi direttori dell’antica Compagnia - a proposito del suo investimento di 130 milioni di $.... (Buon Viaggio…).

Ciò di cui un tempo un Viaggio avventuroso nel quale le meraviglie della civiltà tibetana, della sua millenaria cultura e della sua storia erano una ricompensa per la tenacia e la scomodità per arrivarci, ora, invece, è diventato una routine… a dispetto di tutta quella antica sacralità per sempre perduta per non parlare di quella magnifica Natura fin sul Tetto di un dèmone muratore presiedere l’Inferno!

(A. Lustgarten, Il grande treno)