giuliano

giovedì 9 novembre 2017

GO WEST BABY! (ovvero quando gli opposti coincidono...) (35)

















































Precedenti capitoli:

The Far East (34/1)

Prosegue in:

Pellegrini & Predicatori (36) &












Ruscelli d'Autunno (37)














Lo abbiamo già enunciato in diverse premesse citazioni e pensieri rafforzati anche da valenti ‘manifesti di cultura’, del resto tutto il lavoro fin qui espresso (circa il ‘libero arbitrio’ & in siffatta patria qui disdico e più non dico in quanto l’apparenza compone la maschera al teatro della dubbia e propria falsa consistenza e scena all’atto del Tempo imposta…)  sia come curatore di blog che come, non dico cronista - ma semplice osservatore di eventi - e  critico con gli stessi si pone sempre avverso al sistema e quindi ‘Eretico’ (onestamente perseguitato) per quanto giudicato ‘Ortodosso’.
Quindi non contrari all’economico progresso e/o all’‘uomo moderno’ che si perfeziona nella costante sua progressione (sempre e comunque sia a danno degli altri, cosa fra l’altro estranea al regno ‘naturale’ donde il tutto derivato, e codesto enunciato esula dalle sue naturali premesse rendendolo [l’uomo] sì evoluto ma incapace di quella propria e specifica coerenza che lo distinguono sempre e solo come il vero ed involuto predatore di Madre Terra) bensì propensi a giudicarne contenuti e forma (sia politica che capitalistica); e come questo si snoda ed arreca conseguente ed irreversibile danno, non a beneficio della società e socialità in cui posto, ma nel costante inganno arrecato ed offerto, specie in questi ultimi cento anni verso popoli e culture, e nell’insieme, quella ‘sacralità’ appartenente alla nostra quanto altrui genetica in quanto la reale manifestazione del detto ‘progresso’ tende a rimuovere valori comuni a beneficio di interessi mai collettivistici (anche se in apparenza giudicati tali), ma bensì per i pochi soggetti i quali nell’economica industriosità ne godono impropriamente i frutti non perseguendo quegli obiettivi confacenti con il territorio occupato secondo i meriti di una saggia e retta (geo)politica, ma al contrario tendono ad appianare ogni possibile compromesso soggiacente alle condizioni in cui l’uomo nato ed evoluto misura le distanze fra la corretta interpretazione dell’evoluzione così come rivelata e rilevata, e, in verità e per il vero, impropriamente adottata…




Quindi come già detto mi ripeto in cotal ‘manifesto’:

L’avvento dei nuovi Signori della Terra scatenerà anche una guerra senza quartiere per il dominio e il saccheggio [della Terra], combattuta con le sobrie ed invisibili armi della tecnica. Si tratterà della lotta per lo sfruttamento illimitato della Terra come materia prima e per l’impiego senza riserve del ‘materiale umano’ al servizio del potenziamento assoluto della volontà di potenza nella sua essenza… Sotto la pioggia di bombe che distrugge secoli di storia d’Europa, anche il politico moderno viene dunque ridotto in macerie con la sua aspirazione a svolgere un’azione di direzione e di governo totale. Nessun Fuhrer può più illudersi di guidare le sorti del mondo, senza obbedire egli stesso per primo agli imperativi del comando che guidano l’assalto tecnico. Per questo la sconfitta storica del nazismo nonché medesima del comunismo non annunciano e premettono e/o risolvono la fine dell’èra del totalitarismo, ma solo l’ingresso in una nuova fase, dal volto meno truce e sinistro. Si comprenderà altresì come non poter immaginare come ‘salvatori’ gli Alleati assieme ai Sovietici (non meno dei cinesi), entrambi di altre forme altrettanto inquietanti di potenze nichilistiche, orientate al medesimo dominio planetario. Russia e America (e come vediamo anche ai nostri giorni: la Cina) rappresentano entrambe la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato e mercificato. 




La dimensione dominante in queste realtà ‘virtuali’ è quella di un desolante livellamento, causato dalla riduzione di ogni cosa all’estensione e al numero; tutto risulta uguale e indifferente, al punto che questo puro quantitativo si è trasformato in una sorta di qualità. Già nel 1939 tutta l’umanità appare ormai minacciata da quell’uniformizzazione quale supremo e vero pericolo. Essa è un fenomeno di carattere planetario che nella sua forma essenziale presenta senz’altro gli stessi tratti in America e in Russia come in Cina, in Giappone e in Italia, in Inghilterra e in Germania, e che curiosamente è indipendente dalla volontà dei singoli, dalla specie dei popoli, degli stati, delle civiltà. Al di là, quindi, delle differenti ideologie proclamate e dalle differenti forme storiche assunte, il presupposto ‘metafisico’ della tecnica già risuonava nella formula annunciata da Lenin, secondo la quale il bolscevismo è ‘potenza dei sovietici + elettrificazione’. …Il pensiero-calcolante cattura ormai tutti i popoli della Terra, finendo con l’assumere il senso di un destino mondiale, infatti sul piano della Storia dell’essere il materialismo proclamato dal marxismo va ricondotto all’essenza della tecnica in virtù della quale ‘tutto appare come il materiale da lavoro’ e su questo piano, dunque, esso mostra di avere il medesimo fondamento dell’americanismo. 




Così come il nazionalismo e internazionalismo, poggiando sulla stessa metafisica della soggettività, finiscono per essere indistinguibili, allo stesso titolo di collettivismo e l’individualismo. Nitzsche aveva infatti preconizzato: ‘Si avvicina il tempo in cui sarà ingaggiata una lotta per il dominio della Terra – sarà ingaggiata nel nome di dottrine filosofiche fondamentali, ma lo scontro epocale tra nazismo, comunismo e americanismo, che ha insanguinato la storia del Novecento, conclusosi infine con il trionfo della superpotenza americana, si rivela in ultima istanza, al di là del piano storico dello scontro tra ideologie contrapposte, lo scontro tra gradi e forme diverse di una medesima volontà di potenza che, attraverso la tecnica, intende imporre il proprio dominio sull’intero pianeta. E non c’è dubbio che, da questo punto di vista, l’America abbia saputo con maggiore efficacia imporre il proprio modello totalitario, proprio perché meglio delle altre potenze in gioco, è stata in grado di travestirlo nel suo esatto contrario, sostituendo l’edonismo consumistico al terrore, la pubblicità alla propaganda, il regno della (apparente) libertà e della libera realizzazione degli interessi di ciascuno all’assoggettamento disciplinare delle masse asservite al consumismo materialistico. Per questo oggi, avendo saputo coniugare la necessità della tecnica con il liberismo economico, ha assurto il ruolo, con fede missionaria, di incontrastata promotrice di una Tecnica che promette libertà (di impiegare e consumare risorse) e felicità (nel ‘libero’ impiego e consumo), divenendo, anche, politicamente la prima potenza mondiale.
(C. Resta, Nichilismo Tecnica Mondializzazione)




Quindi da saggio ‘manifesto’ detto dal Far East procediamo simmetricamente in questa doppia linea in cui corre l’alta velocità della vita verso il Go West per i futuri Baby che correndo non si accorgono, in verità e per il vero, di procedere verso il baratro del viaggio della vita, anche quando questa celebra(va) il Grande Regno del Sacro non  protetto né pregato e/o rinnovato entro e fuori le grandi muraglia dell’impero [medesimo impero], bensì cancellato ad uso e consumo di chi pur viaggiando e correndo cieco di quanto Sacro creato nel nome e per conto del Creato e fors’anche di un comune Dio celebrato sacrificando al materialismo un Paradiso in Terra nell’Inferno fondato…

Saliamo sul treno detto….  

Nel non lontano 1873, dopo la Guerra di Secessione (in verità e per il vero non ancora del tutto terminata…) in America la struttura finanziaria della nazione somigliava ad un grande bacino imbrifero. Man mano che la massa monetaria grazie alle grande compagnie ferroviarie affluiva nel grande bacino finanziario al centro di Manhattan, i banchieri ne investivano buona parte in prestiti a vista a brevissimo termine ed alto tasso d’interesse agli operatori di borsa, legando le sorti delle nuove comunità rurali cresciute dai territori sottratti ai nativi più sperdute all’andamento del mercato azionario (il sistema non certo mutato solo evoluto ed esportato, non si può negare l’umor di Stato compiaciuto del proprio operato quando l’Agenzia di turno offre il voto allo ‘scolaro in servizio’ incidendo sulla vita politica ed economica di una intera nazione e/o unione…, tacendo però sul vero senso del bene goduto e a chi sottratto, e altresì, negando quanto danno arrecato… nel TEMPO E LA MEMORIA COSI’ OFFESE E DEGRADATE).
A partire dal Novecento, il sistema della Federal Riserve avrebbe semplificato molto i grandi movimenti di denaro attraverso il paese. Durante tutto l’anno grandi quantitativi di contanti di denaro si muovevano verso New York per tornare in autunno verso le zone dei terreni agricoli. E viaggiavano tutti in ferrovia. Le Compagnie ferroviarie non maneggiavano direttamente i carichi di beni ma anche di contanti; il grande potere delle grandi Compagnie ferroviarie – le prime grandi società ad emergere negli Stati Uniti – sbalordiva il nascente capitalismo americano. “La società moderna ha creato una classe di esseri artificiali che promettono di diventare ben presto i padroni del loro creatore”….




...Nella primavera del 2002 a Lhasa stava cambiando tutto...

Le politiche scelte per potenziare la campagna ‘Go west’ stavano trasformandosi da progetti in imprese reali, destinate a mutare il Tibet in una civilizzata società post-industriale simile a Pechino, Shangai o al centro manifatturiero di Shenzhen. Era una visione che meritava molto di più di una ferrovia. In realtà, richiedeva la precipitosa urbanizzazione non solo di Lhasa, ma anche dei più piccoli villaggi delle regioni più rurali. Nel nono piano quinquennale per la TAR del 1996, il governo centrale aveva richiesto la creazione di più di 70 nuove cittadine e di diverse grandi città entro il 2020. Quegli obiettivi, che erano stati vagamente definiti decenni prima, quando Mao aveva dichiarato che la popolazione del Tibet avrebbe dovuto raggiungere i 10 milioni, ricevevano ora una grossa spinta dalla nuova audacia della Cina.

Il primo passo della nascente trasformazione del Tibet implicava l’eliminazione di ogni infrastruttura antiquata, con un processo che era iniziato a Lhasa nel 2002 (ancor prima, come già enunciato nel...1950), poco dopo il disgelo primaverile. Se ci spostava in direzione ovest sulla Bejing Donglu, verso il torreggiante palazzo del Potala, la città appariva sottosopra. I crescenti tormenti dello sviluppo facevano sembrare i quartieri situati tra Barkhor e la piazza del palazzo appena bombardati. Solo l’angolo di una strada manteneva la caratteristica architettura tibetana sbandierata sugli opuscoli turistici, cioè un muro a forma lievemente piramidale ricoperto di calce che splendeva al sole. A poca distanza, l’intera città era coperta da cumuli di macerie. Una piccola strada, delimitata da pochi muri sinuosi che erano sopravvissuti alla distruzione, portava a quello che era stato un cortile centrale, il nucleo tradizionale degli edifici residenziali di Lhasa.




Una donna anziana, sua figlia e la nipotina erano sedute fuori da una porta e cercavano di proteggere le scodelle di ‘noodle’ dalla onnipresente polvere delle demolizioni. Vicino a loro ondeggiava un enorme telone di plastica blu che sostituiva uno dei muri demoliti. Le donne avevano la bocca protetta dal filtro dell’immancabile velo. Vicino a loro si estendeva un’area desolata coperta da nubi di polvere, dove alcuni uomini, in cima a mucchi di macerie bianche di circa cinque metri, facevano ruotare le mazze in lunghi archi fluttuanti per poi abbatterli ovunque fossero ancora rimaste parti di muro intatte. La donna più giovane spiegava che la polizia annunciava ai residenti la demolizione solo quando era il momento che se ne andassero. Lei e la madre aspettavano la notizia da un momento all’altro, ma non sapevano dove andare. La campagna di demolizione della gran parte di Lhasa, quasi simile a quella che si stava conducendo quell’anno a Pechino nei tipici quartieri ‘hutong’, raggiunse il culmine nel maggio del 2002. Allontanarsi da un quartiere per ventiquattro ore significava tornare e trovare che aveva cambiato aspetto, che un altro edificio era stato distrutto e al suo posto erano già stati alzati nuovi ponteggi. Come un mare crescente, i negozi cinesi e i portici che si erano insediati all’estremità occidentale di Lhasa stavano lentamente avanzando oltre il palazzo del Potala verso il Barkhor, il quartiere più caratteristico, più sacro e più tibetano della vallata. Alla sua estremità meridionale, gli antichi edifici lungo il fiume Kyichu venivano demoliti a ritmo devastante per far posto a nuove costruzioni. Il santuario storico del Barkhor era preso d’assalto. 




Stranamente, in quell’epoca i turisti preferivano vedere l’altro aspetto di Lhasa. In effetti, visitare la città nel 2002 significava entrare in una specie di caparbio stato di negazione che si appoggiava sulla sopravvivenza di un numero ancora sufficiente di aspetti tipicamente tibetani, come i templi profumati di incenso e i monaci vestiti di giallo zafferano. La guida del Tibet di ‘Lonely Planet’ non dedicava più di qualche decina di parole alle parti della città esterne all’area del Barkhor, come se non esistessero. I visitatori si addentravano in giri senza fine per il Barkhor, visitando il tempio di Jokhange quello vicino di Ramoche, fotografando i pellegrini tibetani con gli abiti dai colori vivaci che erano arrivati a Lhasa dalla campagna, poi sorseggiavano un aromatico ‘masala’ indiano o un ‘daal baat’ tibetano in un caffè destinati ad attrarre il gusto degli occidentali. Quando ne avevano voglia abbastanza del Barkhor, potevano prendere un taxi per il Potala o fino ai grandi monasteri vicini, come quelli di Drepung e Sera, o al massimo organizzare un giro in jeep nei dintorni. Per gli stranieri era illegale usare i servizi pubblici verso le principali mete turistiche fuori Lhasa, ma, da quando Pechino aveva identificato il turismo come uno dei pilastri della regione, non mancavano le guide e neppure le agenzie. Mentre scivolavano da una stradina all’altra, i viaggiatori scrutavano minuziosamente ovunque, in una silenziosa competizione per scoprire gli angoli più genuini, evitando di instaurare legami tra loro per salvaguardare le loro private fantasie alla Francis Younghsband: ognuno avrebbe potuto essere il primo occidentale a scoprire la vera Lhasa in mezzo alle macerie. Ma più sovente si lamentavano della città imperfetta che avevano trovato. Secondo alcuni, Lhasa era stata ridotta a un deludente crocicchio di turisti sulla strada verso l’Everest, il Nepal o l’Occidente incontaminato del Tibet.




Un antropologo espatriato, Matthew, cercava ogni tanto di scrollare gli occidentali dalla loro miopia, sfidandoli a guardare a occhi aperti il Tibet in via di estinzione. ‘Il fascino del Tibet è in qualche modo una serratura a tempo, sopravvissuto a diversi cambiamenti,e la gente vuole afferrarlo in qualche modo’, mi spiegò. ‘La maggior parte dei turisti va in Tibet per qualcosa di esotico: c’è questa idea di vedere che cosa riusciamo a catturare di quanto esisteva precedentemente, ignorando che cosa c’è adesso’.
Ma mentre molti occidentali scrutavano il passato con la lente d’ingrandimento, i cinesi tenevano sempre di più gli occhi fissi sul futuro. Al centro dei rapidi cambiamenti nelle strade di Lhasa c’era il grande dilemma moderno della Cina: come sarebbe stato possibile trasformare le province più povere da un passivo a un attivo?
Per quattro anni, Pechino accompagnò il Tibet verso un maggiore grado di autonomia e una rinascita religiosa che erano diventati inimmaginabili da quando il Dalai Lama era fuggito in esilio nel 1959. Furono eliminate le tasse e il Paese ritornò alla proprietà privata, dopo che vennero smantellati gli ultimi pezzi del sistema delle comuni e i resti del grande balzo in avanti. I cambiamenti ebbero un effetto immediato e positivo sul benessere dei tibetani. Al centro di quelle politiche c’era la consapevolezza che fosse possibile ricondurli all’ovile del comunismo attraverso il progresso e lo sviluppo economico più che con la forza bruta.




Ma alla metà degli anni’ 80, forse sentendosi sicura degli sforzi politici fatti, Pechino cambiò la politica di riforme, allontanandosi dalla ricerca di progresso per i tibetani e sostituendola con un’aggressiva modernizzazione economica, definita su scala nazionale più che locale. In quegli anni di riforme, però, i tibetani avevano rafforzato la loro identità culturale. La rinascita dei monasteri e la fiorente cultura religiosa contribuirono alla crescita di un senso di indignazione nei confronti dei cinesi e un inorgoglito desiderio di protestare a voce alta. Nel settembre del 1987, i monaci inferociti dalla risposta al vetriolo della Cina agli sforzi del Dalai Lama per risvegliare la consapevolezza internazionale sulla situazione tibetana, protestarono fuori dal tempio di Jokhang. Più di una decina furono arrestati e, di conseguenza, scoppiò una rivolta di solidarietà. I tibetani assaltarono e incendiarono la stazione di polizia del Barkhor. La polizia cinese sparò sulla folla dai tetti, uccidendo dieci persone e ferendone moltissime altre. Le agitazioni e la tensione continuarono per un anno e mezzo. Intanto il Dalai Lama conduceva una campagna di opinione, rivolta ai governi occidentali, per far conoscere la causa dei diritti, se non dell’indipendenza, del Tibet, che gli fece vincere il Premio Nobel per la pace nel 1989. Ancora una volta, Pechino fu costretta a restaurare l’ordine sulle sue rauche frontiere e nominò segretario del partito nella TAR Hu Jintao, il giovane governatore della provincia del Guizhou, uno dei candidati alla presidenza del partito. Con la prospettiva di succedere a Jiang Zemin, Hu non poteva permettersi errori. 




Il giorno dopo la sua nomina, la polizia represse un’altra protesta nel Barkhor, questa volta sparando direttamente a chiunque facesse sventolare una bandiera del Tibet. Un mese dopo, Hu si recò a Shigatze per incontrarsi con il Panchen Lama, che però gli oppose una certa resistenza, prendendo al volo l’opportunità per criticare apertamente il dominio della Cina sul Tibet, con un lacerante ed insolito richiamo ai leader di Pechino. Cinque giorni dopo, nonostante fossero note le sue buone condizioni di salute, fu trovato morto nel monastero di Tashi Lhunpo, dove viveva, apparentemente per un infarto: la sequenza di eventi portò molti tibetani a convincersi che Hu avesse qualcosa a che fare con quella morte. La rabbia crebbe. I tibetani si resero conto in fretta che per loro, senza protezione del Panchen Lama, l’epoca delle riforme liberali era alla fine. Nel mirino della strategia di controllo cinese c’era la religione. Hu Jintao riteneva che la diffusione della religione in Tibet fosse del tutto inconciliabile con gli obiettivi delle ‘quattro modernizzazioni’ che definivano la politica economica cinese: la religione, come sostenevano lui e molti altri conservatori, coltivava il nazionalismo. I tibetani dovevano creare un mercato basato sui beni materiali, non pregare i Buddha dorati o il Dalai Lama, la cui testimonianza in tutto il mondo dava parecchio fastidio a Pechino. Da allora, il governo iniziò un periodo di intensa repressione delle pratiche religiose nei monasteri. Attraverso un processo di ‘rieducazione’, i monaci dovettero studiare testi di propaganda cinesi per poi essere interrogati a fondo e dimostrare la loro lealtà, e a volte erano mantenuti in isolamento per molti giorni. Il governo chiedeva che disconoscessero il Dalai Lama e giurassero la loro fedeltà al Partito comunista. Quelli che rifiutavano venivano imprigionati, altri si suicidarono. Il risultato fu che il sistema monastico, che aveva iniziato a ricomporsi negli anni 80, fu di nuovo travolto e i tibetani dovettero sottomettersi ai cinesi un’altra volta.




Il governo cinese ritiene che per il 2020 saranno necessarie più di 85.000 camere d’albergo (per non parlare di futuri campi base organizzati per l’avventura della cima), non solo a Lhasa ma bensì nel grande deserto probito agli stranieri di un tempo: la richiesta di sviluppo turistico dell’altopiano attraversato dal Grande Treno (portatore di merci persone e contanti per ugual Riserve a cui destinare futuri ‘riservisti’ confinati entro e non oltre il proprio territorio come la Storia conserva atroce memoria); ed intanto il treno di lusso con il proprio prezioso carico di circa 1000 $ a notte offrirà ai turisti appartamenti da 38 metri quadri con sale da pranzo private e vasche da bagno con l’acqua calda…. Se si valuta come starebbe il Tibet (e la sua antica scienza Sacra) con noi o senza di noi, è chiaro che starebbe meglio con noi, dichiarò lo stesso - uno dei tanti e troppi direttori dell’antica Compagnia - a proposito del suo investimento di 130 milioni di $.... (Buon Viaggio…).

Ciò di cui un tempo un Viaggio avventuroso nel quale le meraviglie della civiltà tibetana, della sua millenaria cultura e della sua storia erano una ricompensa per la tenacia e la scomodità per arrivarci, ora, invece, è diventato una routine… a dispetto di tutta quella antica sacralità per sempre perduta per non parlare di quella magnifica Natura fin sul Tetto di un dèmone muratore presiedere l’Inferno!

(A. Lustgarten, Il grande treno)


















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