giuliano

giovedì 2 gennaio 2020

PREPARARE UN FUOCO (52) (2)




















Precedenti capitoli:

Alla ricerca dell' 'immacolata' (e più certa) ricchezza di vita (51)  &  (1)

Prosegue in:


Il mondo alla rovescia (53)  &  (3)
















& Il racconto del cedro (3)














Cominciò a disporre sulla neve, in guisa di basamento, molti grossi rami, che impedivano alla nascente fiamma di annegare nella neve disgelata. Ottenne la fiamma avvicinando un fiammifero ad una sottile scorza di betulla che aveva in tasca: bruciava anche meglio della carta. La mise sul primo strato di rami, e alimentò la fiamma nascente con manciate di erba secca e con i ramoscelli più minuti. Lavorava lentamente, con mille cautele, perfettamente conscio del pericolo. Gradualmente, mano mano che la fiamma si rinvigoriva, aumentava il calibro dei rami con cui l’alimentava. Accoccolato nella neve, districava i rami dalla boscaglia e li dava direttamente in pasto alle fiamme. Sapeva che non poteva permettersi di sbagliare. A 60 sotto zero, uno che abbia i piedi bagnati non deve fallire il primo tentativo di accendere un fuoco. Se ha i piedi asciutti, e fallisce, può fare un chilometro di corsa lungo la pista per ripristinare la circolazione. Ma la circolazione, in un piede bagnato e in via di congelamento, non si ravviva più neanche correndo, a 60 sotto zero; per quanto veloci si possa correre, il piede si indurisce vieppiù nel gelo.

Tutto questo l’uomo lo sapeva.

Il vecchio di Sulphur Creek gliene aveva parlato l’autunno passato, e adesso il consiglio gli riusciva prezioso. Già i piedi erano diventati completamente insensibili. Per farsi il fuoco era stato costretto a togliersi i guanti, e le dita si erano immediatamente intorpidite. Finché aveva camminato a cinque chilometri all’ora, il cuore aveva pompato sangue fino a tutte le estremità del suo corpo, ma l’istante che si era fermato, l’azione della pompa si era affievolita. Il gelo dello spazio mordeva l’estremità indifesa del pianeta, ed egli, che si trovava nell’estremità indifesa, ne riceveva in pieno l’assalto. Il sangue del suo corpo si ritraeva di fronte ad esso. Il sangue era vivo, come il cane, e come il cane anelava a sfuggire e nascondersi di fronte allo spaventoso gelo. Finché aveva camminato al suo ritmo, volente o nolente il sangue era stato spinto alla superficie; ma ora rifluiva indietro, sprofondando negli intimi recessi del suo corpo. Le estremità erano le prime a sentirne l’assenza. I piedi bagnati furono i primi a congelarsi, e le dita nude ad intorpidirsi, ma senza gelarsi. Naso e guance si erano cominciati a congelare, ed egli sentiva tutta la pelle del corpo rabbrividire, abbandonata dal tepore del sangue. Ma ormai era salvo. Dita e naso e guance sarebbero stati solo sfiorati dal gelo, dal momento che il fuoco aveva preso ad ardere con lena. Lo alimentava con rametti non più grandi di un dito. Ancora un minuto e avrebbe potuto alimentarlo con rami grossi come il suo polso, dopodiché poteva sfilarsi le calzature e, mentre si asciugavano, tenere i piedi nudi vicino al fuoco, strofinandoli naturalmente prima con la neve.




Era riuscito ad accendere il fuoco: era salvo!

Ricordando il consiglio del vecchio di Sulphur Creek, sorrise. Pretendeva che nessuno dovesse viaggiare da solo nel Klondike, oltre i cinquanta sotto zero. Ebbene, lui ci si trovava; aveva avuto l’incidente; era solo e ce l’aveva fatta. Quei vecchi, o almeno certuni, erano delle donnicciole, pensò. Bastava non perdere la testa, ecco tutto. Un uomo degno di questo nome poteva benissimo viaggiare da solo. Ma era impressionante la rapidità con cui gli si congelavano le guance e il naso. E non aveva immaginato che le dita potessero perdere ogni vitalità in così poco tempo. Erano prive di vita: riusciva a stento a coordinare i movimenti necessari ad afferrare un ramoscello, sembravano remote, dal suo corpo e da sé. Se toccava un ramo, senza l’aiuto degli occhi non riusciva a capire se l’avesse preso o no. Tra lui e le estremità delle sue dita i fili di comando erano interrotti.

Ma tutto questo poco importava, ormai.

Il fuoco era lì, scoppiettante e crepitante e carico di vita in ogni sua fiamma danzante. Cominciò a slacciarsi i mocassini. Erano incrostati di ghiaccio; gli spessi calzerotti tedeschi erano come guaine di ferro fino alle ginocchia; e i lacci dei mocassini erano come fili di acciaio inestricabilmente avviluppati come da una conflagrazione. Per un po’ armeggiò con le dita intorpidite, poi, rendendosi conto della totale futilità del gesto, estrasse il coltello. Ma prima che potesse tagliare i lacci, accadde il fatto. Fu colpa sua, o piuttosto la conseguenza di uno sbaglio. Non avrebbe dovuto fare il fuoco sotto l’abete, ma all’aperto. Lo aveva fatto perché, così, era stato più facile prendere i rametti dal sottobosco e gettarli direttamente nel fuoco. Ma l’albero, sotto il quale aveva acceso il suo fuoco, aveva i rami appesantiti da cumuli di neve; da settimane non soffiava vento, ed ogni ramo era carico al massimo. Ogni volta che aveva strappato un rametto aveva comunicato una leggera vibrazione all’albero - una vibrazione impercettibile dal suo punto di vista, ma sufficiente a provocare il disastro.






In cima all’albero un ramo scaricò il suo fardello di neve sui rami di sotto, i quali fecero altrettanto. Il processo continuò, diffondendosi e coinvolgendo tutto l’albero. Si formò come una valanga, che precipitò di colpo sull’uomo e sul fuoco, e il fuoco si spense. Al suo posto ora si stendeva un manto disordinato di neve fresca. L’uomo fu atterrito. Ebbe la sensazione di aver appena udito pronunciare la sua condanna a morte. Lì per lì si sedette, fissando il punto in cui fino a un attimo prima c’era stato il fuoco. Poi si sentì pervaso da una grande calma. Forse il vecchio di Sulphur Creek aveva ragione. Se soltanto avesse avuto un compagno, ora, non si sarebbe trovato in pericolo. Il compagno avrebbe potuto accendere per lui un altro fuoco. Bene, toccava a lui ora riaccendere un altro fuoco, e questa volta non doveva commettere sbagli. Anche se gli andava bene, avrebbe certamente perso alcune dita. I piedi dovevano essere malamente congelati oramai, e ci sarebbe voluto un bel po’ per preparare il secondo fuoco. Tali furono i suoi pensieri, ma non era rimasto seduto a formularli: mentre gli balenavano nel cervello si era dato da fare a preparare le basi della nuova fiammata, all’aperto stavolta, dove nessun albero traditore potesse spegnerla. Si diede poi da fare a raccogliere erbe secche e rametti sottili. Non riusciva a riunire le dita per strapparli, ma poteva prenderli a manciate. Era il meglio che potesse fare, anche se ciò significava raccogliere persino rami fradici o erbe troppo fresche, di nessun ausilio.

Lavorava con metodo, raccattando anche una certa quantità di rami più grossi da usarsi successivamente, quando il fuoco avesse preso bene. E nel frattempo il cane stava seduto a guardarlo, con occhi ansiosi, perché l’uomo gli appariva come il procacciatore di fuoco, e il fuoco era lento a venire.




Quando tutto fu pronto, l’uomo si frugò in tasca per cercare un secondo pezzo di scorza di betulla. Sapeva di averne e, pur senza sentirla con le dita, la udiva frusciare mentre annaspava nella tasca. Ma, per quanto provasse, non riusciva ad afferrarla. E intanto si accorgeva che, ad ogni istante che passava, i piedi gli si andavano congelando. Questo pensiero tendeva a precipitarlo nel panico, ma si sforzò di cacciarlo e di mantenersi calmo. Si infilò i guanti coi denti, stese le braccia avanti e indietro percuotendosi le mani sui fianchi con tutta la sua forza. Prima lo fece seduto, poi in piedi; e nel frattempo il cane se ne stava accovacciato nella neve, la coda pelosa da lupo arricciolata a scaldargli le zampe anteriori, le aguzze orecchie da lupo tutte tese mentre osservava l’uomo

…E l’uomo, mentre agitava e batteva gambe e braccia, provò un grande empito di invidia per la creatura che se ne stava calda e sicura nella sua copertura naturale. Dopo un po’ percepì un primo, fievole ritorno di sensibilità nelle dita. Il fioco formicolio andò aumentando fino a trasformarsi in un dolore pungente, tormentoso, che egli tuttavia accolse con sollievo. Si tolse allora il guanto destro ed estrasse la scorza di betulla. Le dita nude gli si andavano intorpidendo velocemente. Successivamente tirò fuori i fiammiferi. Ma il freddo tremendo aveva reso le sue dita come morte. Nel tentativo di separare un fiammifero dagli altri, tutto il mazzo gli cadde nella neve. Tentò di raccoglierlo, ma non vi riuscì. Le dita morte non erano in grado né di toccare né di afferrare. Procedette con grande attenzione. Scacciò dalla mente il pensiero del congelamento dei piedi, del naso, e delle guance, per dedicarsi con tutta l’anima ai fiammiferi. Osservò attentamente, usando la vista al posto del tatto, e quando vide che le dita erano piazzate ai due lati del mazzo, le chiuse, o per meglio dire le volle chiudere, perché le comunicazioni erano interrotte e le dita non ubbidirono. Si infilò il guanto della mano destra e la batté con furia contro il ginocchio. Poi con le due mani guantate riuscì a portarsi in grembo il mazzo di fiammiferi, nonché parecchia neve. Ma senza grandi risultati. Dopo vari armeggi, riuscì a portarsi i fiammiferi tra i pollici delle due mani guantate e da qui alla bocca. Il ghiaccio scricchiolò quando con un violento sforzo aprì la bocca. Ritrasse la mascella inferiore e il labbro superiore e sfregò i denti sul mazzo per separare un fiammifero. Riuscì a prenderne uno, che si lasciò cadere in grembo. Ma non servì a niente: non poteva raccattarlo. Poi ebbe un’idea: lo afferrò coi denti e se lo strofinò su una gamba. Venti volte dovette strofinarlo prima che si accendesse. Quando fu acceso, sempre tenendolo fra i denti, lo avvicinò alla scorza di betulla. Ma le esalazioni di zolfo, entrandogli nelle narici e nei polmoni, lo fecero tossire spasmodicamente.





Il fiammifero cadde nella neve e si spense!

Il vecchio di Sulphur Creek aveva ragione, pensò nel momento di controllata disperazione che seguì: oltre 45 sotto zero bisogna viaggiare con un compagno. Batté le mani, senza peraltro provare nessuna sensazione. All’improvviso mise a nudo le mani, togliendosi i guanti coi denti. Afferrò tutto il mazzo tra le palme delle mani. I muscoli delle braccia non essendo congelati gli consentirono di stringere forte le palme contro i fiammiferi. Poi sfregò tutto il mazzo contro la gamba. Settanta zolfanelli, all’improvviso, presero fuoco! Non c’era vento per spegnerli. Reclinò la testa da un lato per sfuggire alle loro esalazioni soffocanti, e avvicinò il mazzo ardente alla scorza di betulla. Mentre così lo teneva, sentì qualcosa alle mani. La carne stava bruciando, ne sentiva l’odore. La sensazione divenne un dolore lancinante. Pure lo sopportò, tenendo goffamente la fiamma presso la scorza che stentava a prender fuoco perché le sue stesse mani, bruciando, assorbivano gran parte della fiamma. Alla fine, quando non ne poté più dal dolore, ritirò le mani. I fiammiferi fiammeggianti caddero sfrigolando nella neve, ma la scorza di betulla era accesa. Cominciò a buttare sulla fiamma erbe secche e minuscoli ramoscelli. Non poteva chinarsi a scegliere, perché doveva prendere il combustibile tra le palme delle mani. Restavano attaccati ai rametti pezzetti di legno fradicio e muschio fresco, che cercava di eliminare alla meglio coi denti.

Badava al fuocherello con cura amorosa, anche se goffamente: era la vita per lui, e non bisognava lasciarlo perire. Sentendo che il sangue si ritirava sempre più dalla superficie del suo corpo prese a rabbrividire, e i gesti divennero sempre più inaccurati. Un grosso pezzo di muschio verde cadde sul fuocherello. Cercò di rimuoverlo con le dita ma tremava talmente che finì con lo scompigliare il nucleo del fuoco sparpagliando tutt’intorno erbe e ramoscelli accesi. Cercò di rimetterli insieme, ma nonostante l’intensissimo sforzo il suo tremore ebbe la meglio, e i ramoscelli rimasero sparsi senza speranza. Ciascuno diede una sbuffata fumosa e si spense.

Il procacciatore di fuoco aveva fallito!






Mentre si guardava intorno smarrito, i suoi occhi caddero sul cane, accovacciato sulle rovine del focolare, nella neve: era irrequieto, alzava leggermente una zampa dopo l’altra, e spostava il peso dall’una all’altra. La vista del cane gli fece venire un’idea folle: si ricordò la storia di un uomo che, durante una bufera, aveva ucciso un vitello e si era salvato rintanandosi nella sua tiepida carcassa. Avrebbe ammazzato il cane e affondato le sue mani nel corpo ancora caldo fino a quando non avessero riacquistato la sensibilità.

Poi si sarebbe acceso un altro fuoco.

Parlò al cane, chiamandolo per farlo avvicinare; ma la sua voce aveva un suono strano, come di paura, che spaventò l’animale che non lo aveva mai sentito parlargli prima a quel modo. C’era qualcosa di diverso, e la natura sospettosa dell’animale sentì il pericolo - non sapeva quale, ma oscuramente provò un senso di timore verso l’uomo. Abbassò le orecchie al suono della voce dell’uomo, e i suoi movimenti irrequieti e l’alzarsi e l’abbassarsi delle zampe anteriori divenne più pronunciato, ma non si avvicinò. L’uomo si accostò carponi al cane, ma questa strana posizione ridestò i sospetti dell’animale, che si schermì, scansandosi. L’uomo si sedette per un po’ sulla neve, cercando di dominarsi. Poi si infilò i guanti, coi denti, e si alzò in piedi. Guardò per terra per accertarsi di essere davvero in posizione verticale, poiché la mancanza di sensibilità ai piedi gli aveva tolto ogni contatto col suolo. Vedendolo in piedi, i sospetti del cane si affievolirono, e quando l’uomo gli parlò in tono perentorio, col suono della frusta nella voce, gli si avvicinò, con la soggezione di sempre. Quando fu a tiro, l’uomo perse ogni controllo su di sé. Le sue braccia si tesero verso il cane, ed egli rimase genuinamente stupito nello scoprire che le mani non riuscivano a afferrare la presa, che le dita non si piegavano né sentivano. Aveva dimenticato per un attimo che erano congelate e si andavano vieppiù congelando col passar del tempo…

…Tutto avvenne in un baleno, e prima che l’animale potesse sfuggire, lo abbrancò fra le braccia…




Si sedette nella neve, restando afferrato al cane che digrignava i denti, guaiva e si dibatteva. Ma era tutto quello che poteva fare: tenersi abbrancato all'animale, e starsene seduto. Capì di non essere in grado di ucciderlo. Come avrebbe potuto? Con le sue mani inette non poteva né brandire il coltello, né strangolarlo. Lo lasciò andare, e quello balzò selvaggiamente via, con la coda tra le gambe, ringhiando. Si fermò a una quindicina di metri e lo osservò con curiosità, le orecchie ritte.

L’uomo si mise a cercare con gli occhi le proprie mani, e le trovò penzoloni all’estremità delle braccia. Gli sembrò strano che bisognasse usare gli occhi per capire dove fossero le mani. Cominciò a muovere le braccia avanti e indietro, e a battersi le mani inguantate sui fianchi. Continuò per cinque minuti, con violenza, e il cuore pompò abbastanza sangue alla superficie per fargli cessare il tremito. Ma nessuna sensazione si ridestò nelle mani. Aveva l’impressione che gli penzolassero come pesi morti all'estremità delle braccia, ma quando cercò di identificare l’origine di questa sensazione, non riuscì a trovarla. Una certa paura di morire, tetra e oppressiva, lo pervase. Divenne acuta quando si rese conto che non si trattava più di perdere le dita delle mani o dei piedi, o addirittura le mani e i piedi, ma che era ormai per lui questione di vita o di morte, e la sorte aveva tutta l’aria di essergli avversa. Questo pensiero lo gettò nel panico: si volse correndo verso il letto del ruscello, lungo la vecchia pista semicancellata. Il cane gli si accodò.

…Correva alla cieca, senza una meta, posseduto da un terrore quale non aveva mai provato in vita sua. Lentamente, mentre si arrabattava per aprirsi un varco in mezzo alla neve, riprese a vedere il mondo circostante - gli argini del fiume, gli ammassi di vecchi tronchi, gli alberi senza foglie e il cielo. Correre lo fece sentir meglio. Non tremava più. Forse, se continuava a correre, i piedi si sarebbero scongelati: in ogni modo, se correva abbastanza a lungo, avrebbe raggiunto il campo e i compagni. Senz’altro avrebbe perduto alcune dita delle mani o dei piedi, e qualche parte del volto, ma i suoi compagni avrebbero avuto cura di lui, e salvato il resto. E nello stesso tempo un’altra voce interiore gli diceva che non avrebbe mai raggiunto l’accampamento e i compagni, che era troppo lontano, che il gelo si era ormai impadronito di lui, e che presto si sarebbe irrigidito e infine sarebbe morto. Cercava di scacciare questo pensiero e di non prenderlo in considerazione. A volte esso faceva pressione per essere udito, ma egli lo ricacciava via cercando di pensare ad altro. Gli sembrava strano di riuscire a correre avendo i piedi così congelati che non li sentiva quando poggiavano per terra; gli sembrava di scivolare sulla superficie, di non aver contatto con il terreno. Aveva visto una volta in qualche posto un Mercurio alato, e si chiese se Mercurio provasse quello che provava lui scivolando sulla terra. La teoria di correre fino all’accampamento e ai compagni aveva un solo punto debole: gli sarebbero mancate le forze per farlo.





Già altre volte aveva inciampato; alla fine vacillò, annaspò e cadde.

Quando cercò di rialzarsi, non ci riuscì. Doveva riposarsi un po’, pensò, e poi mettersi semplicemente a camminare. Mentre sedeva a prender fiato, notò che si sentiva proprio bene. Non tremava più, e aveva perfino l’impressione di avere un caldo ardore nel petto. Eppure, se si toccava il naso o le guance, non sentiva nulla. Correre non era servito a sgelarli, come non aveva sgelato mani e piedi. Poi gli venne il sospetto che le parti congelate del suo corpo stessero estendendosi. Tentò di scacciare questo pensiero, di pensare ad altro: sentiva che gli provocava un senso di panico, e del panico era terrorizzato, ma quello persisteva, e finì col produrre in lui la visione del suo corpo totalmente congelato.

Era troppo!

Riprese a correre come un pazzo lungo la pista.

Rallentò a un certo punto il passo, ma il pensiero del propagarsi del congelamento lo fece di nuovo correre. Per tutto il tempo il cane gli stava alle calcagna. Quando cadde la seconda volta, attorcigliò la coda sulle zampe anteriori e gli si sedette di fronte, curiosamente bramoso e intento. Il senso di calore e di sicurezza dell’animale lo irritò, e urlando lo coprì d’imprecazioni finché non lo vide abbassare le orecchie con aria remissiva. Questa volta il tremito lo assalì più presto. Stava perdendo la sua battaglia col gelo, che cominciava ormai a invadere il suo corpo da ogni parte. Questo pensiero lo spinse ancora un po’ avanti, ma dopo aver corso per un centinaio di metri barcollò e cadde bocconi, lungo disteso. Fu l’ultimo suo momento di panico. Quando ebbe ripreso fiato, e il controllo di sé, si mise a sedere e si propose di affrontare la morte con dignità. L’idea, tuttavia, non gli si presentò proprio in questi termini: ebbe piuttosto la sensazione di aver agito come uno sciocco, mettendosi a correre all’impazzata come una gallina decapitata; questa fu la similitudine che gli si presentò alla mente.

Se era destinato a morire congelato, tanto valeva prenderla decorosamente.




Raggiunta questa pace dell’animo, ebbe un primo senso di assopimento. Buona idea, pensò, entrare nella morte dormendo. Era come prendere un anestetico. Morire congelato non era poi così brutto come la gente s'immaginava. C’erano modi molto peggiori di morire. Si raffigurò i suoi compagni, mentre trovavano il suo corpo il giorno dopo. Improvvisamente gli parve di essere con loro, di percorrere con loro quella pista, alla ricerca di se stesso. E, sempre con loro, dietro una curva della pista si trovò disteso nella neve. Non apparteneva già più a sé, poiché anche allora era staccato da sé, e in piedi, coi compagni, guardava se stesso nella neve.

Faceva proprio freddo, pensò!

Al ritorno negli Stati Uniti avrebbe detto alla gente cosa era un vero freddo. Passando da questa a un’altra visione, gli riapparve il vecchio di Sulphur Creek. Lo vedeva nitidamente, mentre al calduccio si fumava la pipa. ‘Avevi ragione, vecchio, avevi ragione’, mormorò l’uomo al vecchio di Sulphur Creek. Quindi l’uomo si assopì in quello che gli apparve come il sonno più bello che avesse mai dormito.

Il cane era accovacciato di fronte a lui, e aspettava.

Il breve giorno volgeva al termine, con un lento, lungo crepuscolo. Non si vedeva alcun preparativo di fuoco, e inoltre il cane non aveva mai visto in tutta la sua esistenza un uomo starsene seduto così nella neve senza accendere il fuoco. Mentre il crepuscolo avanzava, il cane, vinto dal desiderio di fuoco, cominciò ad agitarsi e a gemere sommessamente, poi afflosciò le orecchie, aspettando il castigo. Ma l’uomo rimase muto. Dopo un po’ il cane si mise a guaire più forte. E dopo un altro po’ strisciò vicino all’uomo e annusò l’odore della morte. Arricciò il pelo e si ritrasse. Sostò ancora qualche minuto, ululando sotto le stelle che tremolavano e danzavano, e brillavano nitide nel cielo gelido. Poi si volse, e si diresse trotterellando verso l’accampamento che ben conosceva, dove c’erano altri procacciatori di cibo, e di fuoco.

(J. London, Preparare un fuoco)













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